Quanti pensieri in giornate come quella di ieri. In un mondo in cui si moltiplicano le celebrazioni ufficiali e ci sono giornate dedicate a la qualunque cosa, il 9 maggio - per me che sono europeista convinto - resta un caposaldo.
Infatti, ho celebrato la Festa dell’Europa perché in questa data, nel 1950, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman pronunciò la cosiddetta “Dichiarazione Schuman”, considerata l’atto di nascita del processo d’integrazione europea.
Una dichiarazione che proponeva di mettere la produzione di carbone e acciaio di Francia e Germania (e degli altri Paesi che volessero aderire) sotto un’autorità comune, per rendere materialmente impossibile una nuova guerra tra le potenze europee.
Avendo la delega sugli Affari europei e come membro del Comitato delle Regioni, in questi anni ho scandito la data in vario modo.
Quest’anno mi sono collegato dall’Università valdostana con un pubblico di studenti che hanno seguito corsi sull’Europa con dei giovani valdostani che vivono a Bruxelles e Parigi, svolgendo varie attività sia di studio che di lavoro.
Mi pareva una scelta “fresca” e non paludata, adatta a capire, attraverso scelte personali e motivazioni varie, cosa significhi anzitutto sentirsi cittadini europei, senza rinnegare le proprie radici.
La mattina, prima di questo incontro che si è svolto senza solennità ma in un clima informale, ho letto un breve editoriale di Pierre Haski, che ha scritto quanto io stesso pensavo, mentre riflettevo che cosa dire con semplicità ai ragazzi del pubblico.
Si parte dal fatto che siamo ad 80 anni dalla fine della guerra e dunque i momenti di ricordo si sono infittiti legittimamente.
Ha scritto Haski: “Se c’è un anniversario che dovrebbe riunire più che dividere, è sicuramente quello della fine della seconda guerra mondiale. Nel 1945 l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e i loro alleati europei uscivano vincitori dalla battaglia contro la Germania nazista. Qualche mese prima, Roosevelt, Churchill e Stalin avevano immortalato la loro alleanza in una foto scattata a Yalta, nella Crimea che allora faceva parte del territorio sovietico. Il seguito è ben noto: la guerra fredda, la caduta del muro di Berlino, il disgelo e infine il ritorno della glaciazione”.
Già, il freddo! Quello che avvertiamo tutti nelle ossa, quando guardiamo alle porte delle Unione europea le immagini orrende dell’aggressione russa all’Ucraina e sembra di essere tornati indietro nel tempo. Questa volta a fare paura non sono i nazisti, ma la Russia e l’idea putiniane di ricostruire l’Unione sovietica e la sua sfera di influenza. Chi sottostima la pericolosità per l’Europa - mi spiace semplificare - è un cretino.
Aggiunge il giornalista: “A complicare il panorama c’è il fatto che gli Stati Uniti, leader del “mondo libero” – come si diceva ai tempi della guerra fredda – si ritrovano con Donald Trump a rimettere in discussione l’ordine internazionale costruito nel 1945, e ad allearsi con la Russia. È a Mosca che il teatro diplomatico si fa più simbolico. Tre anni dopo l’invasione dell’Ucraina, Vladimir Putin vuole mostrare agli occidentali che il loro tentativo di isolarlo è fallito. Il suo amico cinese Xi Jinping, leader della seconda potenza mondiale, si trova dal 7 maggio in Russia. I suoi soldati sfileranno al fianco dell’armata russa sulla piazza Rossa”.
Già, mentre il discettavo sull’integrazione europea la logica russa è quella obsoleta di mostrare i muscoli e farlo con l’alleato cinese in prima fila. Due regimi autocratici che si abbracciano.
E l’Europa ha serpi i seno: ricordo l’ungherese Orban e il probabile nuovo Presidente della Romania.
Ma Haski e ancora più ficcante: “Altri leader stranieri hanno deciso di essere presenti a Mosca, tra cui il primo ministro di un paese europeo, lo slovacco Robert Fico, che rompe i ranghi e va ad applaudire la sfilata dell’esercito russo mentre l’Ucraina è bombardata. Lo stesso vale per Aleksandar Vučić, presidente della Serbia candidata all’adesione all’Unione europea, che però antepone il nazionalismo slavo a qualsiasi altra considerazione.Ma la grande vittoria di Putin è rappresentata dalla partecipazione di Lula, il presidente brasiliano, che andando a Mosca pensa di difendere un certo non-allineamento, ma in realtà approva implicitamente la violazione della carta delle Nazioni Unite. Questo attegiamento di Lula si lega anche a un antimperialismo anacronistico”.
Un vecchio comunista con un terzomondismo d’accatto che dialoga con Putin, che dovrebbe essere in galera.
Spiega ancora l’autore: “In realtà viviamo una fase di piena ricomposizione del mondo. Le istituzioni nate dopo il 1945 come le Nazioni Unite sono in crisi, mentre i rapporti di forza tornano a dominare il palcoscenico internazionale come succedeva nel diciannovesimo secolo. Oggi non esistono solo due blocchi, come nella guerra fredda, ma abbiamo un mondo frammentato che non sa ancora come andrà a finire questa storia. Trump ha accelerato la decomposizione dell’ordine mondiale con la sua aggressività caotica.Il club di Mosca del 9 maggio approfitta dell’effetto del trumpismo. Naturalmente, tra i maggiori beneficiari della situazione ci sono Xi e Putin. Due anni fa erano stati loro ad annunciare che il mondo viveva cambiamenti che non si vedevano da tempo, e che Cina e Russia erano le due forze dietro questa evoluzione. Nel frattempo il presidente degli Stati Uniti è arrivato a rinvigorire le loro ambizioni”.
Ma noi europei che crediamo nella democrazia facciamo manifestazioni diverse e parliamo con i giovani, che devono affrontare anni complessi e dobbiamo aiutarli a strutturarsi.
Lo dice bene Haski: “Il 9 maggio gli europei preferiranno un’altra celebrazione, quella della “giornata dell’Europa” per ricordare il 75° anniversario della dichiarazione Schuman, l’atto di nascita della costruzione europea. A ciascuno i suoi simboli. Anche questa si chiama guerra fredda”.