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08 mag 2025

Ossi di seppia

di Luciano Caveri

Piuttosto di Tik Tok, che va per la maggiore fra i giovanissimi, bisognerebbe obbligare gli adolescenti - afflitti del up e down - a leggere, come capitava a me, dei bei libri di poesie.

Confesso che oggi mi capita meno di farlo e faccio malissimo. Penso a “Ossi di seppia” di Eugenio Montale, che dapprima approfondii per motivi di studio e poi mi ci affezionai.

Il famoso critico letterario Gianfranco Contini in un suo saggio introduce il concetto di “realismo esistenziale” per descrivere l’approccio di Montale.

Queste le sue parole: “Una realtà quotidiana e assurda, che cola irrazionale e ininterpretabile senza possibilità di tagli e inquadrature necessarie, come fusa in ghisa: questa è l’essenza dell’atteggiamento che volentieri chiamerei realismo esistenziale“.

E più precisamente: “Il mondo di “Ossi di seppia” è un mondo negativo: secondo luoghi diventati proverbiali il poeta si sofferma a descrivere “il male di vivere” che ha incontrato, e non è in grado di dire al suo lettore che “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. ”.

Ricordo la poesia:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l’ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

Stefano Picciano ha scritto un articolo interessante su Il Foglio, ricordando: “ «Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile», dichiarò Eugenio Montale nel 1975, mentre riceveva il premio Nobel. Era trascorso mezzo secolo dalla pubblicazione della sua prima raccolta, Ossi di seppia, di cui ricorrono in questo periodo i cento anni, un volume - oggi se ne trova qualche copia di esorbitante valore nelle nostre librerie antiquarie - stampato a Torino dall'editore Piero Gobetti nel 1925. "Caro Montale, le sue poesie mi piacciono.

Purtroppo però l'esperienza di altri versi mi dice che per un volume di eccezione e di gusto come il suo c'è in Italia uno scarso pubblico", aveva scritto l'editore vincolando il progetto a un certo numero di prenotazioni per garantire le vendite.

Quello degli esordi fu un libro che l'autore giudicò "spaventosamente smilzo", raccomandando allo stampatore di utilizzare "carta un po' grossa" e "spazieggiare fino al possibile, tanto non arriva alle cento pagine neanche a largheggiare".

Particolare davvero curioso. Più avanti nello stesso articolo: ”Nel 1951, rispondendo a una domanda circa la relazione tra i suoi versi e gli avvenimenti bellici da poco occorsi, Montale osservò: "L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell'avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio".

La condizione umana "in sé considerata" diviene meta fondamentale di una tensione poetica volta a spingersi verso la profondità delle cose, quasi nel tentativo di afferrare "la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe", inoltrarsi nei "silenzi in cui le cose / s'abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto", per giungere finalmente "nel mezzo di una verità". Proprio alle soglie di questo limite estremo, forse, si colloca la dolente consapevolezza esplicitata in Domanda senza risposta: "Non ho avuto purtroppo che la parola, / qualche cosa che approssima ma non tocca".

Il finale dovrebbe spingere alla lettura della raccolta delle poesie: ”E' la condizione dell'uomo che egli descrive in questi Ossi di Seppia con versi sovente improntati alla negazione della speranza, ma al contempo con l'incancellabile, flagrante attesa di chi si accorge che - come leggiamo in un verso scritto anch'esso cento anni fa -"tutte le immagini portano scritto: / 'più in là'". Ecco allora che l'ironica ammissione circa l'inutilità della poesia apre il campo, sul versante diametralmente opposto, alla scoperta del suo impareggiabile valore: essa non ha utilità perché il suo orizzonte - ben più importante di ogni cosa utile - è l'umanità stessa, l'essere umano in quanto tale”.