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13 nov 2019

Ricordare il nazismo contro l'indifferenza

di Luciano Caveri

La cronaca quotidiana offre piccoli pezzi di puzzle che, una volta composti, consentono un'immagine d'insieme, oggetto di riflessione. Pensiamo al ritorno del nazismo, uno dei fenomeni storici più abietti, che continua ad avere nel mondo dei suoi adepti, evidentemente decerebrati. Penso ai due ragazzi che si sono visti un paio di giorni fa a "Lucca Comics and Games" a sfilare con divise naziste, con tanto di svastiche e celtiche, e persino di un carro armato in scala per rendere più suggestiva la loro "sfilata". Ho ammirato un cittadino, finito sul Web, che li ha ben apostrofati, facendo capire la gravità di quel loro gesto evocatore, che non aveva nulla di una simpatica mascherata. Più o meno nelle stesse ore il Consiglio comunale di Dresda, città tedesca della Sassonia abitata da oltre mezzo milione di persone e bombardata dagli Alleati nell'ultimo periodo dell'ultima guerra mondiale, ha approvato una mozione per dichiarare una "emergenza nazismo". Nella mozione si legge che "le azioni e gli atteggiamenti antidemocratici, antipluralisti, misantropici e dell'estrema destra, inclusi atti di violenza, stanno accadendo a Dresda con una frequenza sempre maggiore".
Insomma, persino in Germania - specie nell'Est, per anni sotto il comunismo - rispunta questa brutta bestia.

Ho ritrovato una pagina in cui una giornalista, Monica Perosino, raccontava questa sua storia personale: «Ad undici anni, nel 1983, avevo appena finito di leggere "Se questo è un uomo". L'avevo letto durante le vacanze di Natale, e riletto pochi giorni dopo l'Epifania. Ma restavano domande senza risposta: esiste la malvagità? "Se questo è un uomo" era nella lista dei libri da leggere stilata dalla professoressa di italiano, Maria Mazza Ghiglieno. Neanche lei, che pure aveva sempre le domande e le risposte giuste, poteva risolvere il dilemma. Così, spinta dalla logica senza curve di un'undicenne, mi parve ovvio andare alla fonte. Cercai l'indirizzo di Primo Levi sulla guida del telefono per chiedere direttamente a lui: perché nessuno ha fatto niente per fermare lo sterminio? I tedeschi erano cattivi? Nemmeno per un attimo pensai che stavo scrivendo allo scrittore di fama planetaria. Per me era "solo" Primo Levi ed il suo libro era anche un po' mio. Chiedere conto a lui mi parve la cosa più naturale del mondo. Lui doveva sapere per forza. Presi la mia carta da lettere preferita, zeppa di fiori e pupazzi, e scrissi una paginetta di lettere tozze. Già che c'ero lo invitai nella mia scuola. La risposta arrivò, datata 25 aprile, e non colsi subito la coincidenza fino in fondo. Il concetto di «ignoranza volontaria» non era la spiegazione che mi aspettavo. Io volevo sapere se il male esisteva. Smisi di rileggere la lettera tre anni dopo, l'11 aprile 1987, quando trovarono il corpo di Primo Levi nella tromba delle scale. Ero rimasta senza l'uomo che avrebbe potuto darmi spiegazioni. La lettera finì in un cassetto, assieme ad altre. Ora, 32 anni dopo, è rispuntata durante un trasloco, con tutte le sue risposte». Ecco la lettera citata: «Cara Monica, la domanda che mi poni, sulla crudeltà dei tedeschi, ha dato molto filo da torcere agli storici. A mio parere, sarebbe assurdo accusare tutti i tedeschi di allora; ed è ancora più assurdo coinvolgere nell'accusa i tedeschi di oggi. E' però certo che una grande maggioranza del popolo tedesco ha accettato Hitler, ha votato per lui, lo ha approvato ed applaudito, finché ha avuto successi politici e militari; eppure, molti tedeschi, direttamente o indirettamente, avevano pur dovuto sapere cosa avveniva, non solo nei Lager, ma in tutti i territori occupati, e specialmente in Europa Orientale. Perciò, piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi. La cosa più brutta vista in Lager credo sia proprio la selezione che ho descritta nel libro che conosci». Risposta interessante, che mostra come - a fronte del rigurgito neonazista e neofascista - quel che conta non è solo l'insegnamento della storia e l'esatta descrizione di avvenimenti che non possono che portare al rigetto di ideologie portatrici di violenza e di morte, ma il pericolo più grande, quando torna dal passato qualche brutta storia, sta proprio nel prevalere di quanto si aggiunge all'ignoranza, vale a dire l'indifferenza. Lo ha ricordato anche il grande scrittore Elie Wiesel (internato ad Auschwitz da bambino gli venne tatuato il numero "A-7713"): «L'opposto dell'amore non è odio, è indifferenza. L'opposto dell'arte non è il brutto, è l'indifferenza. L'opposto della fede non è eresia, è indifferenza. E l'opposto della vita non è la morte, è l'indifferenza». Sono, in poche righe, riflessioni importanti e che ci obbligano al dovere della memoria.