Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
11 nov 2019

Da Taranto a Saint-Vincent: politica in tilt

di Luciano Caveri

Ho già detto delle similitudini fra la situazione politica valdostana e quella romana. Maggioranze che - scherzando - si può dire che siano come il sesso senza amore. Nate in sostanza per evitare le elezioni, per scongiurare la vittoria degli avversari e per mantenersi al potere, che altrimenti sarebbe destinato a svanire. Nessuno si deve scandalizzare per questa logica di autoconservazione. In molti anni prima di interesse e poi di impegno politico ne ho viste di tutti i colori e cambi non solo di casacca ma pure di idee di tanti protagonisti vecchi e nuovi. In molti contano su di un'evidente smemoratezza degli elettori, che in parte esiste davvero. Pensiamo a due pasticciacci brutti sui giornali di questi giorni, uno di portata nazionale, uno tutto valdostano.

Il primo corre sulla direttrice "Roma - Taranto" e riguarda il più grande stabilimento siderurgico italiano. Croce e delizia: "croce" perché quell'enorme stabilimento ha avvelenato una città e causato gravi patologie nella logica assassina di una fabbrica pubblica che era un colabrodo di denaro; "delizia" perché per l'occupazione locale è un'azienda insostituibile nel breve e medio termine e l'arrivo di privati interessati dimostrava spazi di movimento per un'attività siderurgica che rischiava di sparire dall'Italia come altri comparti defunti, tipo elettronica, chimica e tessile. I parlamentari pugliesi "pentastellati" hanno stravinto le elezioni con uno slogan folle: «chiudiamo la fabbrica» e poi, paradosso italiano, è stato il loro leader Luigi Di Maio a chiudere l'accordo per tenere aperto lo stabilimento, ceduto al più grande gruppo mondiale. Presupposto principale: uno scudo penale che non colpisse i nuovi amministratori per responsabilità passate, mentre un Piano ambientale avrebbe sanato la situazione. Ma il primo Governo Conte cambia poi le carte in tavola e persino il premier Giuseppe Conte in persona - che è pure pugliese - annuncia: «L'immunità penale su "Ilva" è un privilegio, e per questo il Parlamento l'ha eliminata». Era il 23 giugno ed in questi giorni l'azienda decide di andarsene ed usa come pretesto principale questa parte essenziale dell'accordo stipulato a suo tempo. Le ragioni sono anche altre, come la crisi mondiale dell'acciaio e probabilmente la coscienza, dopo essere entrati, di una situazione peggiore del previsto. Il Partito Democratico, che della questione occupazionale e sociale degli operai dovrebbe interessarsi, ha seguito i "pentastellati" sulla strada della chiusura ed oggi insegue la situazione, capita la drammaticità del caso. E' la dimostrazione che convivere al Governo con i "grillini" è stata una pia illusione e, dall'altra parte, il matrimonio con i democratici affossa i "Cinque Stelle" che crollano elettoralmente, come già era avvenuto per l'alleanza con la Lega. Per stare assieme bisogna, nel rispetto delle differenze, avere visioni comuni sui problemi importanti e non appare essere il caso. Ad Aosta siamo sulla stessa lunghezza d'onda. L'aggregazione autonomista, in barba al fatto di essere "parenti serpenti", si è messa assieme con una scelta di vertice mal digerita delle residue basi di militanti. Il "bene comune" evocato nel caso dagli eletti è il "proprio bene" per restare ai posti di comando ed evitare le urne, letali per i più. Ora a trainare la coalizione sono due consiglieri di "Rete Civica" comandati da una vecchia volpe che arriva dal lontano Sessantotto, Elio Riccarand, che comanda e decide, altrimenti stacca la spina e suona il «tutti a casa». Peccato che sui temi e sui problemi non si avanzi per le differenti opinioni. Intanto l'Amministrazione va a rotoli per una Presidenza debole e troppi galli in un pollaio ed una Dirigenza regionale che arranca senza una linea politica e con posti di responsabilità affidati per umori politici e non per competenza. Spicca in queste ore l'"affaire Casinò", gestito anche da persone in maggioranza che hanno avuto una condanna di primo grado per danno erariale e solo l'appello scioglierà i nodi, pur ribadendo come i livelli di responsabilità fossero molto diversi gli uni dagli altri. A decidere ora sulla Casa da gioco ci sono anche dipendenti in aspettativa, che dovrebbero evitare il dossier non per conflitto d'interessi ma per ragionevolezza. Quel che colpisce è che sul tema Casinò pontifichino persone che furono grandi sostenitori del già condannato manager Luca Frigerio e del suo successore Giulio Di Matteo, osannati quando sostenevano che tutto si stesse aggiustando, mentre si accumulavano i debiti che hanno portato al limitare del fallimento. Lo stesso Di Matteo che, come Frigerio, veniva portato dal sindaco Mario Borgio in Consiglio comunale a Saint-Vincent per esaltarne capacità e strategie. Infatti lo si è visto. Nessuno che ammetta di aver preso un abbaglio ed anzi si fa scivolare tutto via, come se nulla fosse e non ci fossero state indicazioni e complicità politiche (e forse altro, si vedrà anche con la perizia monstre decisa da Procura e Tribunale) in quanto avvenuto sotto il loro naso. Poi ci lamenta di una politica incompresa e dei cittadini pronti a impugnare la scheda elettorale come se fosse una sciabola.