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22 ago 2018

Il mio cuore è a Genova

di Luciano Caveri

Alla vigilia del Ferragosto appare sulla scena - a turbare l'animo di tutti noi - la tragedia di Genova, le cui immagini agghiaccianti hanno fatto purtroppo il giro del mondo, dando un senso di fragilità immanente con le molte rovine e quel camion fermo al limitare dell'improvviso strapiombo causato dal crollo di parte del "ponte Morandi", dove sono passato un sacco di volte. La denominazione - lo ricordo - è riferita dall'architetto Riccardo Morandi, che studiò l'aerea struttura in cemento armato inaugurata nel 1967, chiamato impropriamente "ponte di Brooklyn", visto che quello americano risale al 1883. Bisogna anzitutto compartecipare al terribile lutto di chi ha visto i propri cari colpiti da questo infame crollo sotto i propri automezzi di una discussa infrastruttura e basta fare un giro sul Web per vedere che già era considerata un'opera sorvegliata speciale.

Verrebbe voglia di aggiungere che ci sono troppe lacrime di coccodrillo versate in queste ore e, per restare nei rettili, spiccano alcune lingue biforcute di chi sfrutta le morti per giocare a scaricabarile o peggio far finta di niente e indicare nel Caso, cinico e baro, l'unico responsabile. Circostanza che appare troppo spesso come un comodo alibi per mettere le mani avanti, magari da parte di chi rischia ad horas di ricevere un avviso di garanzia. Aggiungerei che fra chi piange in modo ipocrita c'è anche chi - si osservi il paradosso - spara spesso senza motivi e in modo indiscriminato contro le "Grandi Opere" con una logica populistica di anti-modernismo che fa rizzare i capelli nel nome di una sorta di pauperismo misto a superstizioni. Per cui proprio a Genova non si è mai costruita quella "Gronda", alternativa al percorso con il ponte crollato, cioè una strada al passo dei tempi, proprio per queste paranoie e immobilismi. C'è un "Movimento no Gronda" - legato ai "Cinque Stelle" - che spiegava che la strada storica, quella appunto del ponte, andava benissimo ed i rischi di crollo del ponte - verificatosi ieri - era null'altro che «una favoletta». Chissà cosa pensano ora e chissà perché il Ministro dei Trasporti pentastellato Danilo Toninelli omette questa storia e contro la "Gronda" si erano espressi Beppe Grillo già molto tempo fa ed a inizio anno il vice Premier Luigi Di Maio. E invece alzi la mano chi, transitando periodicamente in quel misto di sistema autostradale e tangenziale della città di Genova, non si sia chiesto - con o senza lavori in corso - che cosa di male avessero fatto i genovesi e i viaggiatori di ogni dove costretti all'attraversamento per essere obbligati ad una sorta di gimcana, degna davvero di una pista da go-kart. Ciò colpisce ancora di più quando ad essere implicate in situazioni di manutenzione - come avveniva nel tratto caduto del discusso ponte - sono società autostradali, in mano ai privati, che non si risparmiano (d'intesa con lo Stato e senza un controllo delle autorità italiana ed europea che vigilano sulla concorrenza) in aumenti tariffari ed in lavori continui, spesso con società "in house", cioè evitando appalti con curiose comunanze fra controllati e controllori. Per cui, nel caso valdostano, con certi incassi storici si sarebbe rifatta ex novo l'autostrada, specie nel suo tratto primigenio dal Piemonte ad Aosta, magari prevalentemente in galleria come avviene per l'autostrada dell'Alta Valle, nota come Monte Bianco. Penso per un attimo ai lavori dell'Anas nel ponte a fianco a casa mia alla fine, a valle, della circonvallazione di Saint-Vincent, che credo sia più o meno coetaneo dell'oggi famigerato "ponte Morandi". Ritengo che fosse ancora più vecchio del quel pezzo di ponte sulla "Monjovetta" di recente rimesso a nuovo e questo vale probabilmente per molti altri tratti sulle strade statali, sulle regionali e anche sulle comunali, per non dire dei lunghi viadotti autostradali fra Saint-Vincent e Châtillon. Noto ogni tanto (guardavo giorni fa alcuni manufatti sempre sulla "Monjovetta" o anche la strada al centro di Châtillon) muraglioni che paiono persino ottocenteschi. Non è il mio lavoro, per cui l'osservazione vale poco, così come trovo interessante - tanto che ne parlai in epoca non sospetta con alcuni esperti - ma solo come valutazione generale le conseguenze delle condizioni climatiche alpine sulla tenuta del cemento armato nelle varie costruzioni in cui venne impiegato a partire dagli anni Trenta-Quaranta del secolo scorso. Non si tratta di essere allarmisti, ma bisogna capire di più sulla situazione, traendo quanto di ammonimento viene dai fatti genovesi. E riflettere, spero, sui sistemi di controllo e sulle spese necessarie per tenere le strutture efficienti o ricostruirle. Spese che non possono essere fatte gravare sul famoso "Patto di stabilità", ma senza dire che - con mossa improvvida - la colpa del crollo di ieri è dell'Europa!