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22 ago 2018

L'esempio del rifugio Fallère

di Luciano Caveri

Sono interessato da sempre al sorgere ed allo svilupparsi della civilisation valdôtaine e dunque mi è capitato tante volte di leggere quanto pubblicato per capire meglio le epoche più antiche e in parte misteriose in cui si sviluppò il popolamento della Valle d'Aosta. Particolarmente stimolanti sono l'insieme di ricerche sul campo e le successive ricostruzioni svoltesi nella vasta zona di grandi pascoli nel territorio del Mont Fallère, che va poi collegata in rete con ritrovamenti e con gli studi connessi che partono da scavi nelle zone vicine fino ad altre località delle Alpi che servono a risolvere alcuni rebus. Piano piano crescono le nostre acquisizioni e si aprono, con le scoperte degli studiosi, squarci di luce su popolazioni antiche e sulle loro caratteristiche.

Ci pensavo risalendo a piedi, giorni fa, il cammino che da Vetan porta sino al rifugio che si trova sotto il Mont Fallère con un colpo d'occhio straordinario su questo cuore verde della Valle con mandrie al pascolo che, viste da distante, sembrano puntini ed una panoramica su montagne storiche come la celebre "Grivola". Non ci metti molto a figurarti di incontrare un cacciatore-raccoglitore o le versione successiva di umanità dell'agricoltore-allevatore che hanno abitato questi luoghi. Nel suo intrigante libro sul "vocabolario" dei Monti valdostani il compianto Umberto Pelazza, Generale degli alpini e grande conoscitore della Valle, scriveva su Fallère: «Fel e Fal indicavano, fra gli indoeuropei, "rocce elevate" (come nel tedesco "Fels", nell'inglese "Fell", nel francese "Falaise", nell'italiano "Falzarego", e, più vicino a noi, nel "Fallère")». Ma rimettiamoci in cammino: si deve allo spirito imprenditoriale di un artigiano-artista del legno, il quotato Siro Viérin, la costruzione del rifugio, che è molto bello e caratteristico, senza mai cadere in certo kitsch alla tirolese di chi esce dal binario della sobrietà valdostana. L'attrattività naturale di questa area d'alpeggio e delle montagne circostanti è accresciuta proprio da un lavoro in progress di Viérin, che abita a Saint-Oyen nella Valle del Gran San Bernardo, da dove si dipana un'altra sentiero d'accesso al rifugio. In sostanza da Vetan si è accompagnati lungo la risalita da apparizioni di vario genere, frutto dell'ingegno di Siro, attraverso opere grandi e piccole, talvolta da scoprire stando vigili perché certe statue sono celate nella natura, che sia un cespuglio, una roccia, una cresta, un albero. Diventa, per chi lo voglia, una gioiosa caccia al tesoro, in cui figurano animali e animaletti alpini selvatici e domestici, figure umane e favolistiche, scritte che danno indicazioni talvolta scherzose sul percorso. Esempi plastici delle grandi capacità di Viérin che è sulla scena artistica valdostana dagli anni Settanta e da soggetti agresti e tratti dalla Natura e dalla Cultura valdostana si è spinto - scoprendo il legno in tutte le sue potenzialità - su scelte figurative evolute e moderne. Rifugio e percorso artistico danno però una riposta interessante per tutto il complesso del turismo valdostano. L'offerta indirizzata ai turisti non può essere di questi tempi standardizzata: si deve viceversa dimostrare originalità e saper raccontare storie che incuriosiscano il turista, specie nelle località che per varie ragioni sono considerate minori rispetto alle grandi stazioni turistiche, dove non c'è un problema ad attrarre flussi turistici. Anzi, in certi casi vale semmai l'inverso e cioè la necessità di riflettere su misure di contenimento a tutela della località stessa e della qualità del soggiorno dei turisti e della vita dei residenti. Certo manu militari, cioè la logica da numero chiuso, non si ottiene nulla, ma una soluzione logica è semmai quella di smistare - facendo sistema e non giocando a cani e gatti - i turisti in altre zone.