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13 lug 2012

Otium et negotium

di Luciano Caveri

Quando studiavo il latino a scuola, all'epoca questo avveniva ancora e già a partire dalle medie (con la temibile professoressa Maghetti), passavo il tempo a chiedermi a che cosa servisse. Al Liceo Classico - per darmi un tono e accentuare quel pizzico di infondata superiorità di chi aveva scelto questa scuola, specie se "somaro" nella materia - la spiegazione era che, per quanto la lingua fosse indubbiamente morta, restava la certezza che, fatta salva la bellezza della letteratura, le versioni "insegnavano a ragionare". Neanche sotto tortura - perinde ac cadaver, tanto per usare il mio "latinorum" - potrei affermare il contrario. Uno dei misteri dei classici era questa cosa che ci veniva spiegata - mentre noi sognavamo le vacanze estive - nella logica contrapposta fra otium ("ozio") e negotium ("attività lavorativa"). Oltretutto - ci spiegavano i prof - la parola "negotium" metteva assieme "nec" ed "otium" e quindi il significato è proprio, senza sbavature, "non ozio".  Quando ormai aleggiava in classe la convinzione che questo benedetto otium fosse il nostro "tempo libero" con annessi e connessi spuntava qualche versione di Cicerone con il suo "otium litteratum", dunque niente "dolcefarniente" ma tempo dedicato allo studio con attività culturali e approfondimenti letterari. Insomma, un disastro. Quando noi, invece, ci vedevamo già vestiti da antichi romani, festosi e stesi su di un triclinio a festeggiare o immersi nelle acque termali bollenti, Seneca ci affondava definitivamente: "Il riposo senza gli studi è anch'esso morte, è sepoltura di un uomo vivente". Tutto cambia e si trasforma. Guardando i viziosi dell'iPad et similia in spiaggia o seduti su panchine con le montagne davanti e immaginandoli, per contro, nella situazione del loro "negotium" di fronte al computer d'ordinanza sulla scrivania, vien da dire che la classificazione ormai si è grandemente complicata e ogni esatto confine saltato.