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25 ott 2015

"Gruyère" e "Neret": prodotti dal passato

di Luciano Caveri

Ricordo quando, in diverse circostanze, presentammo - va anche aggiunto: con successo - i vini valdostani a quel "grand public" delle Istituzioni europee, che è un parterre multietnico e che ogni tanto rimpiango con tutto il cuore. E mi capita che ciò avvenga non per una vaga nostalgia, ma perché c'è tanto da imparare dal crogiolo di culture, usi e costumi di questa Europa che dobbiamo tenerci stretta, una volta corrette certe storture, perché le alternative sono brutte. E il vino - che sia un «salute», un «santé», un «cheers», un «prosit»... - è una sorta di "esperanto" che ci avvicina tutti. Fra i diversi sommelier intervenuti a Bruxelles, ricordo per il suo humor naturale Alberto Capietto, scomparso troppo presto e che è una di quelle persone - maledetta Morte! - che ti stupisci di non incontrare più per fare due parole e resta, per fortuna, la forza dei ricordi. A sentirlo allora raccontare dei vigneti eroici abbarbicati alle rocce, giusto sotto le vette, la Valle d'Aosta pareva un luogo di fiabe.

E forse lo è davvero: io conosco dei "domaine viticole" dove l'intelligenza e l'astuzia umana sono degni di fare dei viticoltori delle origini dei personaggi analoghi a fate, gnomi ed elfi. Dei conquistatori di spazi coltivabili, che impararono ad addomesticare la vite per ottenere uno degli alimenti chiave dell'umanità, il vino. Edmondo De Amicis, che di belle bevute in Valle d'Aosta se n'era fatte di sicuro, diceva: «Il vino aggiunge un sorriso all'amicizia ed una scintilla all'amore». Basta pensarci, con buona pace degli astemi, per ricordare tanti bei momenti. Ci pensavo ieri durante uno dei passaggi della diretta televisiva di "RaiVd'A" per le "Batailles de Reines", quando - dopo aver parlato del ritrovato "Gruyère" valdostano ("Vieux du Duché d'Aoste") di Massimiliano Glarey di Cogne che riprende un vecchio prodotto locale (degno del "Dop" svizzero e dell'"Igp" francese) - Rudy Sandi, viticoltore, storico e esperto del vino, ha raccontato dei vecchi vitigni e dei vini riscoperti, come il rosso "L'aîné-Neret" di Didier Gerbelle di Aymavilles, perfetto proprio per accompagnare, in una logica di retrouvailles, il formaggio ricomparso dall'oblio. Poi mi ha regalato un libro, che mi ha deliziato il pomeriggio d'ozio. Si tratta di un libro del 1836 del medico canavesano Lorenzo Francesco Gatta intitolato "Saggio sulle viti ed i vini della Valle d'Aosta", arricchito nella versione attuale da una serie di corposi approfondimenti proprio di Rudy Sandi, che è anche l'editore dell'opera. A parte l'italianizzazione piuttosto grottesca dei toponimi (all'epoca del libro il solo bilinguismo in Valle era francese-francoprovenzale!), la descrizione proposta dal dottor Gatta è interessante, specie nelle parti descrittive meno tecniche e l'apparato iconografico -aggiunto da Sandi - rende ancora più chiari certi passaggi. Così come la stessa personalità del medico eporediese emerge dalle note biografiche aggiunte, che comprendono il suo impegno politico in aria liberale sin dai moti del 1821. Lo stesso Sandi scava nella storia valdostana, compreso quel pozzo di notizie che è il "Coutumier del Duché d'Aoste", aggiungendo aspetti curiosi ed interessanti, spesso di antropologia e etnografia, persino inediti per chi pure ha confidenza con le vicende del passato della Valle. Resta l'appello finale di Sandi a «rimboccarsi le maniche» in questi tempi difficili: appello che - nel suo sincero afflato di civismo - va al di là della viticoltura, che pure in questi anni, a differenza di altri comparti agricoli, ha dimostrato una vivacità che fa ben sperare. Certo, aiuta il fatto che ormai bere certi vini della Valle è un autentico piacere!