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13 ago 2015

Napolitano e il ruolo dei senatori a vita

di Luciano Caveri

Confesso che quando ho letto la lettera sulle riforme istituzionali sul "Corriere della Sera", scritta dall'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sono saltato sulla sedia. Sarebbe come se il Papa emerito Benedetto XVI prendesse carta e penna e si occupasse di questioni che riguardano Papa Francesco, Pontefice in carica con pieni poteri. Dice il senatore a vita Giorgio Napolitano: «La scelta è quella della natura del nuovo Senato con cui si intende porre termine alla stortura storica del bicameralismo paritario, dando vita a un Senato che rappresenti le istituzioni territoriali. Questa è la scelta di sostanza (al di là di aspetti procedurali da definire) che ha come suo conseguente e ineludibile corollario la esclusione di una elezione di futuri senatori a suffragio diretto e con metodo proporzionale. Questa scelta, e le conseguenze che essa implica, sono state decisamente sostenute e con dovizia di argomenti, da larga parte degli studiosi chiamati a dare il loro contributo attraverso le audizioni svoltesi in sede di Commissione».

«E' risultato chiaramente convincente - continua Napolitano - come la modifica su quel punto nodale del testo già approvato in prima e in seconda lettura farebbe cadere l'impianto di base della riforma, quale era stato delineato e ampiamente concordato in molteplici occasioni e luoghi istituzionali negli ultimi anni (per non parlare di precedenti molto più lontani). Ed egualmente è risultato, nel lungo confronto concluso dalla presidente Finocchiaro, come altre ipotesi di caratterizzazione del Senato - quale un immaginario "Senato delle garanzie" - oltre a non essere sostenibili in termini di modello costituzionale, produrrebbero lo stesso effetto di far saltare le basi su cui si è posta la riforma del bicameralismo paritario. Ci si presenta dunque così, attraverso le posizioni più radicalmente alternative espressesi ancora in queste settimane, il rischio, o la tentazione, di "disfare la tela" come ebbi modo di dire intervenendo in Commissione il 15 luglio nel ricordo di esperienze di drammatica inconcludenza in questa materia, da me vissute a più riprese e in particolare da presidente della Repubblica». Mi fermo qui nella citazione: si incrociano due problemi. Uno di forma: l'eventuale emendabilità di quella parte del testo spetta solo al presidente del Senato Pietro Grasso ed è bene che sul punto Napolitano, per il suo peso politico, si astenga da un giudizio. Uno di sostanza: nessuno nega a Napolitano di essere partigiano di questa riforma del Senato, ma una presa di posizione su di un giornale (nei lavori del Senato può fare quel che vuole) non può che imbarazzare il Quirinale. Si tratta di un'invasione di campo certamente dispiaciuta all'attuale Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Poi, per quel che mi riguarda, ritengo assai grave questa scelta sul Senato, celando un monocameralismo di fatto in una riforma a vantaggio di strapoteri governativi. Tra parentesi il senatore valdostano Albert Lanièce dovrebbe votare contro un finto "Senato delle Regioni", per nulla in linea con l'antica visione federalista in tema di riforme patrimonio dell'Union Valdôtaine e che ho avuto tante volte modo di esprimere in Parlamento. Stupisce poi che un regionalista come Napolitano non dica nulla sulla grave mortificazione del regionalismo presente nella nuova parte di Costituzione in itinere, ennesimo viatico per una visione personalistica delle Istituzioni che magari non sfocerà in qualcosa di autoritario, ma la puzza di zolfo c'è. Si è già a lungo discusso di questa storia dei senatori a vita: ricordo anzitutto la discussione su come interpretare il limite di cinque senatori a vita per merito (gli altri sono gli ex Presidenti della Repubblica in automatico), fissato dall'articolo 59, comma 2, della Costituzione, e cioè se si trattasse del limite massimo di nomine a disposizione di ciascun presidente oppure il limite massimo di senatori a vita di questa estrazione presenti in Senato (tesi ora prevalente). Ma soprattutto si è discusso sulla possibilità o meno di un loro ruolo politico vero e proprio nei lavori parlamentari. Ricordo cosa scrisse tempo fa Sergio Romano, partendo dalla volontà dei Costituenti: «quando vollero che il Presidente della Repubblica avesse il diritto di nominare cinque senatori a vita per i motivi elencati nella sua lettera, i costituenti non pensavano che la sorte d'un Governo potesse dipendere dal loro voto. Credevano che un pizzico di uomini illustri avrebbe aggiunto decoro alla Camera Alta e che ogni senatore a vita avrebbe potuto illuminare i suoi colleghi ogniqualvolta il Senato fosse stato chiamato ad affrontare questioni in cui lui, o lei, aveva accumulato nel corso della sua vita una particolare competenza. Ma la prassi, con il passare del tempo, è cambiata. Vi sono ancora senatori a vita che hanno meriti sociali, scientifici, artistici o letterari, ma la maggioranza è stata formata per molto tempo da ex Presidenti della Repubblica (come Ciampi, Cossiga, Scalfaro) e da veterani della politica (ieri Fanfani, De Martino, Napolitano, Spadolini, Taviani, oggi Andreotti e Colombo). So che molti di essi hanno scritto libri e tenuto cattedre universitarie. Ma soltanto uno sfacciato bugiardo potrebbe sostenere che Andreotti è stato nominato per il suo saggio sull'omicidio di Pellegrino Rossi, De Martino per i suoi studi di diritto romano, Fanfani per i suoi trattati di storia economica, Spadolini per i suoi libri sul Risorgimento e Taviani per le sue ricerche su Cristoforo Colombo. Sono diventati senatori a vita perché la classe politica ha deciso di utilizzare l'articolo 59 per premiare e decorare sé stessa. Questa evoluzione avrebbe avuto, tutto sommato, scarsa importanza se i senatori a vita si fossero imposti una sorta di autodisciplina. Avrebbero potuto partecipare ai dibattiti e dare alla discussione il contributo della loro esperienza, ma uscire dall'Aula al momento del voto ed evitare, in tal modo, di essere determinanti. Ma hanno preferito rivendicare la pienezza dei loro diritti, come se un problema di questo genere potesse venire affrontato e risolto in termini esclusivamente giuridici. (…) E' giusto in queste circostanze, che la sopravvivenza del Governo dipenda dal voto di chi non ha un mandato e non è tenuto a giustificarsi di fronte agli elettori? Una risposta molto netta fu quella data da Umberto Terracini quando l' articolo 59 venne in discussione all'Assemblea Costituente. Se "la seconda Camera deve continuare a riflettere, sia pur con gli adeguamenti conseguenti al suo modo di costituzione, la fisionomia generale del Paese» - osservò Terracini - non è possibile ammettere la presenza a vita di «elementi preordinati i quali, di per sé, sarebbero sufficienti a modificare e sconvolgere, sia pure non fondamentalmente, tale fisionomia politica"». Insomma, ricordato per curiosità che l'unico che rinunciò alla carica fu il grande direttore d'orchestra Arturo Toscanini, i senatori a vita dovrebbero sempre camminare in punta di piedi, specie se ex Presidenti della Repubblica, il che non vuol dire fare "le belle statuine", ma neppure risultare decisivi nei voti, come invece è avvenuto, e soprattutto dovrebbero esprimersi con garbo, nel rivolgersi direttamente all'opinione pubblica, su temi di estrema delicatezza e in cui si evidenzi, come nel caso del Senato, una forte carica di scontro politico. A maggior ragione se questo avviene dentro il Partito Democratico, il partito di Napolitano, che mette dunque tutto il suo peso non solo su di un delicato tema istituzionale ma pure in una bagarre di partito terra a terra ma importante, perché la Sinistra ha ragione da vendere e da prendere.