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14 apr 2015

Un messaggio dal Friuli

di Luciano Caveri

Sono gli storici a ripercorrere, ognuno seguendo il filo dei propri pensieri, la storia dell'autonomismo valdostano ed ognuno se la canta come vuole, perché il bello delle vicende del passato è che sono facili da piegare alle proprie teorie. Di questi tempi in Valle d'Aosta, in cui la politica è il gran tramestio delle elezioni comunali, che dimostra che più la politica è in piccolo e più, per capirla, bisogna ricorrere ai vaticini, verrebbe voglia di partire dalla fine più che dall'inizio. Nel momento attuale di marea più bassa per l'autonomia valdostana è consolante vedere che tutti si dicono autonomisti, anche chi ha un "Dna" così distante da far spavento e non passerebbe neanche il semplice apparecchietto - simile all'alcooltest, ma applicato ai valori dell’autonomismo - per scorgere percentuali così basse da far sorridere, come avviene per lo stronzio nelle etichette dell'acqua minerale. Ma certe logiche d'embrassons-nous, ammantate da nobili propositi, celano anche molte e tristi miserie.

Credo che, da questo punto di vista, ci siano davvero delle "facce di tolla" in giro, attori degni dell'"Actor's studio", che parlano di Emile Chanoux e sono imparentati - come background - con quelli che l'hanno fatto morire in galera. Per altro, c'è anche chi, pur vantando lombi apparentemente più nobili, ha poi comportamenti politici più degni della 'ndrangheta che dell'eredità, specie morale, del martire della Resistenza valdostana. Ma torniamo alle radici. Un fatto certo è che una spinta decisiva all'autonomismo valdostano venne da parte della Chiesa locale e di alcuni suoi esponenti e non risalgo ad epoca medioevale, ma mi rifaccio a personaggi contemporanei come le Chanoine Joseph Bréan o l’Abbé Joseph-Marie Trèves, che hanno storie interessanti per capire le vicende della Valle d'Aosta alle sorgenti dell'attuale autonomia. Per questo mi ha colpito una notizia, tratta dall'edizione di Udine del "Messaggero Veneto" (quotidianamente guardo diversi giornali alpini). Giorni fa, in occasione della festa del Friuli, denominata "Fieste de Patrie dal Friûl 2015", è intervenuto durante la celebrazione ufficiale Monsignor Guido Genero, vicario generale dell'arcidiocesi di Udine. Durante la solenne messa in marilenghe, cioè in friulano, insieme ai rappresentanti delle altre due diocesi del Friuli, Gorizia e Concordia-Pordenone, ha detto: «Ribadiamo e preserviamo la nostra identità, nel rispetto di ogni gente, ogni territorio, ogni storia. Serve una più forte intesa tra i friulani: c'è bisogno di una precisa proposta politica, culturale e sociale, di uno sforzo convergente sui punti che risultano essenziali per il bene del Friuli di oggi e di domani. Rinnovo, allora, una proposta che era stata lanciata - senza fortuna - già in passato: ci si organizzi per promuovere, almeno una volta all'anno, gli "Stati Generali della Patrie dal Friûl", occasione per affrontare argomenti di interesse collettivo e per dar voce alla varietà di questa terra. Gli spunti che ne emergeranno andranno poi tradotti in opere politiche, appunto, culturali, economiche e pure ecclesiastiche. Sarebbe un'impresa urgente e degna: crediamo a questa buona causa». Bel coraggio dire questo di fronte ad una politica che lassù, come da noi, spesso perde alcuni punti di riferimento. Non mi infilo nella storie friulan-friulane, perché capisco che ci sono specialisti che mi potrebbero rintuzzare per proprie conoscenze e storie di vita. Posso solo dire che andavo a parlare lassù sia quando esisteva il "Moviment Friûl" sia quando mi occupavo della legge di tutela delle minoranze linguistiche storiche, che riconobbe appunto il friulano come lingua. Avevo avuto consapevolezza che anche in quell'angolo delle Alpi vigono logiche di divisione reale anche su quei valori supremi che apparentemente dovrebbero fare l'unanimità. Segno appunto che c'è chi lo è, e c'è chi lo fa.