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19 set 2014

Non c'è una maledizione della montagna

di Luciano Caveri

Un'estate terribile. Persino il tedesco "Der Spiegel" ha intitolato in questi giorni: "Morire in montagna: la maledizione del Monte Bianco". Ovviamente non esistono maledizioni e non mi stancherò mai dire - scusate l'ovvietà, ma è per i titolisti - che le montagne non hanno né comportamenti né sentimenti umani, ma vi è latente un'intrinseca pericolosità della montagna, che si accentua per le condizioni meteo, per i cambiamenti climatici in atto che accelerano fenomeni negativi e anche per l'inettitudine di parte degli alpinisti che l'affrontano. Il campionario estivo assomma le solite storie: persone senza giusta attrezzatura, chi sale in orari sbagliati, persino il caso opportunamente filmato di gente sul ghiacciaio che non viaggiava legata in cordata fra i crepacci. Strana storia: se parli con vecchie guide alpine ti confermano, in modo comparativo, la diminuzione di appassionati che scelgano certe vie classiche assai frequentate in passato. Ma certe vette - ed il Monte Bianco spicca - restano come il miele per le api e si sa, specie sulla via francese, quanto ci siano rischi oggettivi dovuti alle condizione fisiche del territorio che si attraversa. E la "Gendarmerie" che fa da filtro agli accessi è utile ma non risolutiva in assenza - e mai ci saranno - di parametri oggettivi che possano distinguere chi può e chi non può tentare la salita. Tranne ovviamente casi macroscopici e carenze grossolane. Così come quest'anno - basti pensare al Monte Cervino, che di morti ne conta ogni anno - ci sono state montagne che hanno avuto una livrea estiva proprio per il maltempo che porta gelo e neve in quota. Questo accentua, al di là dei dati finali che avremo, la negatività delle cifre vanno comunque registrate in un perimetro di salite in parte ridotto. Ma è vero appunto che su tutti i massicci, comunque sia, si sono contati morti, spesso per questioni banali dovute ad uno scivolone o ad una scarica di sassi, talvolta perché emergono nuovi sport, come la tuta alare, o "wingsuit" in inglese, in cui basta un batter di ciglia per finire male. Anche questo fa statistica, come i troppi interventi di soccorso alpino svolti a lieto fine, che dimostrano come in molti affrontino con sufficienza le scalate, confidando ormai sulla efficacia dell'azione delle guide con l'ausilio dell'elicottero. Per altro, tranne rari casi, l'elicottero sul nostro versante - a differenza della Svizzera dove pagando si obbliga chi va in montagna ad avere le necessarie assicurazioni - risulta un intervento gratuito a carico del servizio sanitario e dunque è facile il rischio d'abuso. Resta dunque il grave problema dell'educazione alla montagna, che è fatta non solo di conoscenza del territorio, ma anche di una pianificazione della salita e pure - per questo ho ammirato il nostro Simone Origone quest'estate quando ha lasciato a poco dalla cima del K2 - di saper rinunciare se non si sta bene in salute o se si è minacciati per un possibile cambiamento del tempo. Sembra sempre strano e difficile da spiegare a chi sia completamente digiuno di montagna come possa essere possibile che l'estate possa essere così foriera d'incidenti. E invece chi conosce l'ambiente alpino sa che questa è una caratteristica delle alte quote. Mentre nel fondovalle, a pochi chilometri di distanza, si sta sereni e tranquilli, lassù in una bufera o per un qualche altro evento naturale si rischia o persino si perde la vita. Fa parte delle regole del gioco ed è per questo che, per non affidarsi troppo all'azzardo, certe regole non vanno sfidate, aumentando i rischi.