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11 giu 2020

L'orrore del razzismo

di Luciano Caveri

Per me gli esseri umani sono tutti uguali ed in più considero il razzismo un'espressione già in sé bacata, perché presupporrebbe l'esistenza di diverse "razze", mentre di "razza umana" ce n'è una sola. Anche se nel "dna" scopriamo come noi "Sapiens" si abbia dentro di noi qualcosa degli ominidi che furono nostri concorrenti. L'ultimo scomparso è stato il celebre "uomo di Neanderthal". Esistono semmai civiltà, culture, usi e costumi che si differenziano in maniera straordinaria ed è perfettamente legittimo che ognuno di noi possa avere delle preferenze e stilare una propria personale graduatoria. Ben diverso sono l'odio, il disprezzo, l'intolleranza. Al razzismo in genere si accompagna la xenofobia, i cui confini sono abbastanza indeterminati. Questa è un'esasperazione dell'etnocentrismo, cioè della propensione a ritenere che la propria comunità sia superiori a quelli di qualsiasi altra e questo crea chiusure e, naturalmente, avversione per gli altri.

Di tanto in tanto questa questione torna a galla. In questo ore lo è negli Stati Uniti, dopo l'uccisione di George Floyd, un uomo di colore fermato dalla Polizia: un agente per alcuni minuti gli ha tenuto schiacciato il collo causando il suo soffocamento e per questo è imputato di omicidio. Da Minneapolis si è diffusa un'ondata di proteste, purtroppo anche violente, e questo fa passare chi usa certi metodi dalla parte del torto. Donald Trump ha cavalcato la risposta muscolare, con la Bibbia in mano, chiedendo persino - ottenendo una rispostaccia dal Pentagono - di adoperare i militari contro i manifestanti. Il Presidente USA ha dimostrato, per l'ennesima volta, la sua inconsistenza ed un carattere pericolosamente bizzarro, che purtroppo piace ad una parte vasta di elettorato americano, gettando una luce sinistra sulla democrazia americana all'orizzonte delle Presidenziali di quest'anno. Mesi fa, sul caso italiano dove l'arrivo dei migranti ha acceso passioni e confronti fra culture politiche diverse, l'editorialista Ernesto Galli della Loggia ha scritto cose che condivido, partendo da uno dei miei autori preferiti, che indicava una strada: «Ce la indica un grande antropologo, forse il più grande del Novecento, Claude Lévi-Strauss - è necessario aggiungere che difficilmente lo si sarebbe potuto definire un conservatore? - in un suo testo poco noto ("De près et de loin", Odile Jacob, 1988) contenente parole di straordinaria attualità che meritano di essere conosciute e meditate. Specialmente in un momento come l'attuale in cui nella società italiana le tensioni di vario genere causate dall'immigrazione stanno accendendo intorno a questi temi un aspro dibattito pubblico nel quale si sprecano le accuse e le strumentalizzazioni politiche. Per Lévi-Strauss il razzismo è "l'ostilità attiva" di una cultura verso un'altra, volta a "distruggerla o semplicemente ad opprimerla" sulla base di una presunta gerarchia qualitativa dei rispettivi patrimoni genetici. Questo è il razzismo: che, come è ovvio, si accompagna inevitabilmente alla negazione all'altro degli stessi diritti di cui godiamo noi. Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, "che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita. E' un dato normale dei comportamenti umani". E fa un esempio che lo riguarda personalmente: se in metropolitana gli capita d'incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale un moto di simpatia e d'interesse, e il fatto si produce, ammette senza problemi, sulla base della loro semplice apparenza fisica, del loro puro modo di comportarsi nonché della conoscenza della loro lingua. "Nella vita quotidiana - conclude - tutti ci comportiamo così per situare uno sconosciuto sulla carta geografica. Sarebbe davvero il culmine dell'ipocrisia pretendere di vietare questo genere di approssimazione, denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista"». Questo per dire che le parole vanno pesate e l'accusa di razzismo non dev'essere fatta con eccessiva disinvoltura, perché il rischio è il depotenziamento di una parola importante, che finirebbe per svalutarsi nel suo uso. Meglio precisa, per capirci, della Loggia: «Dunque non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall'odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l'idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. E' un'altra cosa. Così come è un'altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria. Una tale preoccupazione diventa razzismo non già quando in base ad essa si chiedono all'autorità misure per evitare che si crei la condizione suddetta (chiedendo di porre dei limiti all'immigrazione, ad esempio), bensì quando s'invocano misure a qualunque titolo discriminatorie nei confronti di chi è già tra di noi. O, come accade più spesso, quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono». Esiste, invece, il rischio che ormai, si usa il razzismo come un cannone per uccidere una formica, mentre è giusto e indispensabile evocare questo terribile termine quando è necessario farlo. Aggiunge infine della Loggia: «Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l'identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza. Se si è nati in questa parte del mondo, ad esempio, può capitare di essere un ateo a diciotto carati, infatti, perfino un mangiapreti, ma nel momento in cui si vede la cattedrale di Notre-Dame andare a fuoco, avvertire comunque un sentimento misterioso di tristezza e di angoscia, di perdita di qualcosa che ci riguarda profondamente. Proprio per questo la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate. E' questa la strada che in Italia troppo spesso imbocca una parte della destra quando esaspera gli animi e più o meno intenzionalmente favorisce comportamenti che mirano a negare o violare i diritti altrui, siano questi emigrati, rom, o chiunque altro. Al che però si risponde spesso dall'altra parte, dalla sinistra, in modo altrettanto esasperato e contrario, opponendo ai "bassi istinti" gli "alti principi", alla febbre identitaria un algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l'accusa di razzismo. Ma applicare sconsideratamente il termine razzismo , come non manca di sottolineare esplicitamente Lévi-Strauss, significa solo banalizzare il concetto, svuotarlo del suo contenuto. E così rischiare di condurre alla fine a un risultato opposto a quello desiderato». Nel caso citato degli Stati Uniti il razzismo è una vecchia storia che ha significato una lunga lotta di diritti civili con straordinarie personalità, che hanno consentito passi da gigante. Ma basta un caso clamoroso per capire come tutto ancora non sia stato risolto. Osservo ad esempio come l'insistere ideologico sul termine "afroamericano" possa essere, ma è solo un pensiero, un'espressione infelice e non politicamente corretta, come si vuol far credere. Viene in mente, in chiusura, Primo Levi e la sua acuta osservazione: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che "ogni straniero è nemico". Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager».