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10 gen 2020

La Befana, il fascismo e le Donne

di Luciano Caveri

Se fuori dall'Italia parli della Befana ti guardano con due occhi così. Infatti si tratta di un personaggio sponsorizzato dal fascismo per la creazione di un immaginario culturale, nutrito appunto da figure aggreganti, a favore del processo di identità nazionale, in quella logica laica nazionalpopolare che aveva in fondo una venatura anticristiana, presente nel confuso background di Benito Mussolini, che aveva fatto breccia sugli italiani per una serie di sfortunate combinazioni. Oggi la Befana è diventata l'ultimo corollario giocoso del periodo natalizio, visto che nelle prossime ore - spunteranno (con dolcetti e carbon dolce) le "calze della Befana" con i dolciumi. "Befana" che deriva da leggende degli Appennini e la definizione nasce da una storpiatura di "Epifania". Parola che, a sua volta, passa dal greco al latino "epiphanīa", appunto "manifestazione di Gesù ai Re Magi", derivata appunto dal greco "epipháneia, manifestazione, apparizione", derivazione di "epiphaínomai, mostrarsi, apparire". Giuro di aver sentito da un neofascista ignorante che la Befana dimostrava l'interesse del fascismo per le... donne. Per altro questa storia del fascismo che avrebbe ampliato il ruolo femminile è una baggianata.

Cito un capitolo del bel libro di Francesco Filippi "Mussolini ha fatto anche cose buone - Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo". Il Duce aveva promesso il voto alle elezioni per le donne e poi: «Il fascismo concesse il diritto di voto amministrativo alle donne il 22 novembre 1925. Ma quella che pare una conquista fondamentale fu in realtà una clamorosa presa in giro. Per prima cosa si deve sottolineare che non fu concesso il suffragio universale. Per poter votare le donne dovevano aver compiuto 25 anni e possedere caratteristiche specifiche: potevano votare ad esempio madri e mogli di caduti per la patria, medagliate, che possedessero la patria podestà e sapessero leggere e scrivere, che possedessero la licenza elementare o che avessero una quota di contribuzione erariale locale superiore alle cento lire annue. L'insieme di questi paletti restrinse di molto la platea delle possibili elettrici, riservando a una minoranza di donne benestanti e istruite un diritto promesso all'intero corpo sociale femminile«. Due mesi dopo spariscono le elezioni per Comuni e Province e con tutte le altre elezioni democratiche a seguire. Solo nel 1945 le donne avranno un vero diritto di voto. Altro mito la valorizzazione del ruolo femminile, così l'autore del libro: «Nella rivoluzione fascista le donne erano chiamate, soprattutto, a mettere al mondo nuovi italiani, preferibilmente maschi, per farne dei soldati. L'emarginazione della figura femminile dal contesto sociale si affiancava a un altro desiderio del regime, vale a dire la crescita quantitativa e qualitativa del popolo italiano. Le donne non potevano perdere tempo in cose da maschi, dovevano solo mettere al mondo figli e le attenzioni dedicate dal regime alla donna e a tutto il contesto famigliare erano strumentali e finalizzate a fare della donna non un soggetto sociale ma un oggetto della politica di potenza totalitaria. In virtù del suo ruolo di procreatrice di nuovi giovani italiani (cioè fascisti), la figura della donna si trasformò sostanzialmente in quella di "fattrice", consolidando uno stereotipo già incardinato nella società italiana. Tutte le azioni concrete portate avanti dal regime in questo campo partirono dal presupposto che le donne erano "grembi", e non individui». Leggiamo questo ulteriore passaggio illuminante: «Accanto alle leggi che cercavano di escludere la donna dalla vita pubblica vi furono poi una serie di norme che dovevano obbligarla in posizione di subalternità anche nella vita domestica. L'articolo 587 del nuovo Codice Penale, introdotto nel 1930, prevede le famigerate attenuanti per il cosiddetto delitto d'onore: "Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni". Questo passaggio, che sarà poi cancellato dal nostro ordinamento solo nel 1981, sancisce due principi fondamentali: il concetto che l'onore fosse caratteristica prettamente maschile e che i confini della sua lecita difesa si estendessero alle familiari più strette. Una donna "disonorata" disonorava pure l'uomo a lei più vicino, e tale disonore poteva essere lavato col sangue contando sulla clemenza delle istituzioni. Il secondo principio è che, nei fatti, la vita di una donna valeva meno di quella di un uomo. In un periodo in cui non esisteva l'istituto del divorzio, le attenuanti garantite da tale articolo furono una minaccia costante per le donne in cerca di indipendenza, che avessero cercato di costruirsi un proprio cammino di vita autonomo, magari accanto a un altro uomo. Un avallo implicito al femminicidio». Ma Filippo segnala anche l'ambiguità, alla fine funebre, della vita privata: «L'immagine della donna del capo era duplice: da un lato l'ancella del focolare, rappresentata icasticamente da Rachele Guidi, che la propaganda fascista chiamò quasi per antonomasia "donna Rachele". La moglie del duce, che gli diede cinque figli e che mandò avanti la famiglia garantendo al marito una fedeltà incondizionata e apparentemente incurante dei tradimenti manifesti. Dall'altro lato le amanti, alcune con figli illegittimi, ultima delle quali, quasi ufficializzata nel proprio ruolo di favorita, Clara Petacci, oggetto sessuale, ricordata col diminutivo di "Claretta", quasi fosse una bambina, perennemente minore agli occhi del duce e anche dell'opinione pubblica. Un bel trofeo per un uomo che si avviava alla vecchiaia. Altrettanto fedele al duce della moglie, condivise con Mussolini la fine violenta e la pubblica profanazione postuma. La tragica esposizione del suo cadavere accanto a quello del dittatore fu l'ultima immagine della donna fascista». Tutto chiaro.