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18 ott 2018

"Tribù" non è un'offesa

di Luciano Caveri

Molti anni fa scherzai, ma anche per dire la verità si può usare il sorriso, sul fatto che nella politica valdostana si adopera troppo spesso un meccanismo tribale della ricerca di un Capo da esaltare e poi, prima o poi, da abbattere. Modello che poi vale per la politica anche di grandi Paesi: pensiamo a cosa ruoti attorno ad un Donald Trump ancora stabile o ad un Emmanuel Macron già in picchiata, ricordando il destino di Matteo Renzi, che ha volato nei sondaggi prima di cadere nella polvere. Dovrebbero rifletterci i due Capi in auge: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, perché il passaggio da "Capo" a "capro" (espiatorio) è rapido e arriva qualcuno in fretta a sostituirti.

Ricordavo per questo la celebre fiaba di Hans Christian Andersen, quella del re protervo e minaccioso che si fa ingannare da chi gli vende con astuzia corrispondente alla sua stupidità un tessuto inesistente con cui gli viene confezionato un vestito altrettanto inesistente, perché... adamitico. Alla fine il sovrano sfila per strada nudo, convinto invece di indossare un vestito sontuoso, ma nessuno osa dirglielo per paura delle conseguenze di questa pur banale rivelazione. La voce della verità liberatoria viene dalla innocenza di un bimbo, quando grida: «il Re è nudo!». Un motto diventato celebre contro i rischi dell'arroganza del Potere. Molti politologi hanno spiegato il fenomeno della crisi della politica partecipativa a beneficio dei partiti personalisti, hanno scritto della marginalizzazione del ruolo della democrazia parlamentare in favore delle personalità forti degli Esecutivi, si sono soffermati sui meccanismi tradizionali di concertazione e di mediazione azzerati dalla crescente affermazione del Capo, come se in periodi di difficoltà trionfasse appunto una logica tribale. Si tratta di meccanismi che in passato sono stati fucina di dittature e di dittatori. Quando usai in salsa valdostana quella parola "tribù" (che viene dal latino "tribus") ci fu chi si offese, come se ci fosse nel termine una affermazione di sottosviluppo, mentre invece significa "gruppo etnico organizzato e socialmente coeso, con tradizioni proprie" e gli antropologi e sociologi lo hanno sempre più applicato a realtà occidentali e non solo in Paesi lontani per civiltà legate a tradizioni del passato. Leggendo uno strano libro, "Tribù - Ritorno a casa e appartenenza" di Sebastian Junger, che passa dal fascino degli indiani nativi americani al ritorno dalle guerre dei soldati che diventano veterani, ho trovato dei passaggi interessanti che ricordano come ci sia nella logica comunitaria della tribù qualcosa che bisogna riscoprire e che dimostra il lato solare del "tribale" e un uso "buono" del termine che mi ha fatto riflettere e perciò trasferisco il pensiero. Dice Junger con semplicità: «Robert Frost notoriamente scrisse che la tua casa è quel posto dove, quando devi andarci, devono farti entrare. La parola "tribù" è molto più difficile da definire ma un inizio potrebbero essere le persone con le quali ti senti obbligato a condividere quello che resta del tuo cibo». Aggiunge poi, laddove segnala come di fronte a drammi come la guerra e le catastrofi naturali, rinasca spontaneamente un senso di vicinanza anche in società in cui non si sa più neppure chi sia il proprio vicino di casa: «le catastrofi sembrano fare - talvolta nell'arco di tempo di pochi minuti - è rimettere indietro l'orologio dell'evoluzione sociale di diecimila anni. L'interesse del singolo viene inglobato nell'interesse del gruppo perché non si dà alcuna sopravvivenza al di fuori della sopravvivenza del gruppo e ciò crea un legame sociale di cui molte persone tristemente sono mancanti». Ma la considerazione prende in un passaggio un indirizzo che trovo interessante per piccole comunità come quella valdostana, dove elementi di vita in comune si mantengono: «I risultati sono in linea con qualcosa che prende il nome di "teoria dell'autodeterminazione" la quale sostiene che gli esseri umani necessitano di tre cose fondamentali per essere soddisfatti: hanno bisogno di sentirsi capaci in ciò che fanno; hanno bisogno di sentirsi autentici nelle proprie vite; e hanno bisogno di sentirsi in connessione con gli altri». Junger ammonisce con un pensiero che condivido e che si staglia in maniera plastica di fronte a certe difficoltà che stanno toccando anche la nostra Valle d'Aosta ma verrebbe da pensare all'Italia e allo sfaldamento di certi valori di fondo: «Il tradimento definitivo della tribù non è agire in modo competitivo - ciò dovrebbe essere incoraggiato - ma fondare il tuo potere sulla scomunica degli altri dal gruppo. Questo è esattamente ciò che i politici cercano di fare, quando in riferimento ai loro rivali vomitano velenosa retorica. Questo è esattamente ciò che fanno personalità del mondo dei media quando vanno oltre la critica dei loro concittadini e apertamente li insultano. Insultare delle persone con le quali condividi un avamposto in prima linea è una cosa incredibilmente stupida da fare e personalità pubbliche che immaginano che la loro nazione non sia, potenzialmente, un immenso avamposto in prima linea si stanno illudendo». Come dire, riassumendo: senza coesione umana e sociale di fronte ai momenti difficili, solo per rafforzare al contrario e egoisticamente le proprie posizioni, si prende una strada pericolosa che mina la civile e comune convivenza.