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09 apr 2018

Sui piaceri della tavola

di Luciano Caveri

I piaceri della tavola sono un continuo salto ad ostacoli per chiunque li voglia coltivare in giusta misura e senza essere un crapulone. Tocca stare a dieta in lotta con le taglie, bisogna fare attenzione ai fondamentali delle analisi di sangue e urine, anche il portafoglio conta perché mangiare bene costa e bisogna essere attenti. Insomma: neppure il più epicureo può essere un bon vivant in servizio permanente effettivo, dovendo tenere conto delle circostanze. In fondo la "gola" - uno dei "Vizi capitali" - è un peccato chiaro nell'indicare i rischi e, per contrasto, offre una retta via da imboccare (verbo adattissimo!). L'ingordigia, cioè l'abbandono e l'esagerazione ai piaceri della tavola, quando diventa perdita totale del senso della misura, azzera capacità di provare piacere reale per ciò che si sta gustando.

Segnalo, fra l'altro, i pericoli derivanti per chi - all'opposto del godimento della vita - è una cattiva forchetta o per frugalità innata o perché vittima di abitudini alimentari strampalate, se non persino di patologie fisiche o mentali. Questi sono i peggiori commensali al proprio desco: chi non consuma e astrologa su cibi e bevande in danno di chi ci dà dentro va bandito dalle mense. A me da sempre - fatta questa distinzione fra la giusta misura e l'eccesso da una parte e dall'altra - è piaciuto il gusto della scoperta culinaria sotto qualunque cielo, affinata nel tempo e con l'età. Sarà che sono fra coloro che, fin da piccoli, hanno avuto - nella formazione che ti marca nella vita - periodiche capatine in famiglia al ristorante che ti abituano al gusto della scoperta culinaria. Ma è vero che con il tempo si diventa più selettivi e meno quantitativi, come avviene con molte passioni. Per cui allo stomaco ed ai sensi applicati al cibo non si sfugge non solo perché sfamarsi è un obbligo ma deve anche essere, nelle giuste circostanze, una gioia. Per farlo tocca sedersi a tavola - sfuggendo alla routine ma con il piacere della scoperta - e la scelta di farlo bene può essere uno dei frutti della propria educazione, ma anche di scelte oculate e metodo. Uno ci mette del suo ed il mio è avere "posti del cuore", ma anche seguire il percorso della scoperta senza cedere all'abitudine, alle mode e al conformismo. Si può mangiare bene prescindendo dal prezzo e dalla location, ma non bisogna essere ipocriti: per raggiungere certe eccellenze di qualità bisogna, sempre con misura, sapere che ci sono dei piani da salire. Va bene lo "street food", ottime l'osteria o la piola, perfetti l'agriturismo o la pizzeria, ma sia chiaro che ogni tanto qualche cima più elevata bisogna scalarla. Resto dell'idea, pur guardando e facendo qualche critica sul dominante "TripAdvisor", dove manca ogni reale controllo sulle recensioni e si è trasformato in terreno di vendette e meschinità, che il sancta sanctorum per avere idee e suggestioni - pur fallibile anch'esso come tutte le cose umane - restano le stelle della "Guida Michelin". Ricordo come guida rossa fu lanciata nel 1900 in occasione dell'Esposizione Universale di Parigi dalla società produttrice di pneumatici "Michelin", che ne è ancora oggi l'editore. Spiegazioni approfondite le trovate nel bel museo aziendale, che ho visitato a Clermont Ferrand nel Puy-de-Dôme. La prima edizione fu realizzata dai fratelli André ed Édouard Michelin: era una guida pubblicitaria offerta al momento dell'acquisto di pneumatici e si rivolgeva con suggerimenti di officine e alberghi ai ciclisti francesi, visto che le auto all'epoca erano pochine! E' dal 1920 che la "Guida Michelin" diventa a pagamento e contempla finalmente i ristoranti e le prime segnalazioni. Dal 1926 con la prima "Stella" per segnalare la qualità del ristorante e dal 1931 viene creata la celebre classificazione buona ancora oggi: una Stella significa "interessante" ("très bon restaurant dans sa catégorie"); due Stelle "merita una deviazione" ("excellente cuisine; mérite le détour"): tre Stelle "vale il viaggio" ("cuisine exceptionnelle; vaut le voyage"). La carta fa ancora la sua bella figura ai tempi del Web (anche se c'è già l'App...), mentre tutta la produzione di cartine stradali con cui ho viaggiato prima delle nuove tecnologie è ormai stata seppellita dall'uso del navigatore satellitare, che suggerisce in certi casi le pause pasto nei paraggi. L'altro giorno, seduto in un ristorante ad una stella nel Pays de la Loire, "Le Moulin des quatre saisons2 a La Flèche dello Chef Camillo Constantin, riflettevo - fra una pietanza e l'altra - di cosa resti di diverso nella Patria della "Michelin" dagli "stellati" italiani, che cominciarono ad essere censiti solo a partire dal 1956 e che contano oggi molte eccellenze, che ho visitato in parte. In Italia, a parte i costi in certi casi davvero folli dei menu e certe liste di attese proibitive per andarci, l'accesso allo "stellato" resta molto elitario. In Francia famiglie e gruppi di amici fanno un vero e proprio investimento economico per poter andare a gustare la cucina "stellata" di uno Chef, come elemento di consapevolezza culturale. Così i tavoli sono di più e si nota una clientela più varia e in sostanza meno snob, la cui scelta di una vera e propria esperienza enogastronomica è come andare in visita in un museo o in un sito archeologico. Un approccio giusto che valorizza quanto di ricercato e di artistico c'è nel lavoro di uno Chef, quando - tolti gli eccessi divistici di certe star televisive italiane molto in video e poco ai fornelli - mira al sodo e cioè al nostro stupore di gourmand ed al godimento delle nostre papille gustativa.