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10 ott 2016

Chef in TV o ai fornelli?

di Luciano Caveri

Per via di una trasmissione radiofonica, mi è capitato di parlare di cucina o meglio del mestiere così glamour di questi tempi: lo "Chef" (dal latino "Caput"), che sottende "de cuisine". Lo dimostra il numero crescente di giovani che studiano negli appositi istituti professionali (il venti per cento in più solo quest'anno). Un tempo non era così, perché spesso si andava nei ristoranti, anche di lusso, magari conoscendo il proprietario o il "maître" che ti accoglieva, mentre chi operava dietro le quinte con le pentole restava uno sconosciuto. Oggi non c'è televisione che non esalti, invece, questa figura professionale e basti pensare a produzioni storiche, come la "Prova del Cuoco" che è stata fra le prime a proporre le ricette (ma io ricordo nella "Rai" in bianco e nero il grande Luigi Veronelli e la simpatica Ave Ninchi in "A tavola alle 7") ma soprattutto il fenomeno della gara di "MasterChef", per avere conferma che certi "stellati" (nome che deriva dal prestigio di figurare ai più alti livelli della storica "Guida Michelin") ormai sono più davanti alle telecamere che davanti ai fornelli.

Per altro l'aspetto attirante delle competizioni che si diffondono sta nella vena di cattiveria che aleggia sui poveri concorrenti, trattati come stracci e i maltrattamenti sadici aggiungono appeal alle trasmissioni, come certe competizioni sportive motoristiche che si guardano in attesa che - scusate la vena macabra - ci sia un qualche incidente ad animare la gara. Non voglio fare il moralista, ma da una parte le ricette televisive hanno creato una situazione di autentica indigestione mediatica, per cui ti alzi persino appesantito dalla poltrona davanti al televisore, ma soprattutto le competizioni, che animano i commenti sui "social" che ormai sono un complemento ai dubbi risultati "Auditel", alla fine diffondendosi a dismisura svalutano piano piano il prodotto, destinato oggi al famoso ammonimento che «il troppo stroppia» e come tutte le mode c'è un'alba e ci sarà un tramonto. In un'intervista di Elena Meynet allo Chef di origine palermitana Filippo La Mantia ("Oste e Cuoco" è la significativa insegna del suo ristorante a Milano), che ha un'incredibile storia personale per cui finì innocente in galera dove si mise a cucinare per sopravvivere ed uscito di prigione scagionato lasciò il lavoro di fotoreporter per quello di Chef, ha pronunciato parole chiare (anche se lui stesso è finito in televisione) contro certi suoi colleghi e pure amici che passano il tempo a pavoneggiarsi in televisione e lasciano spesso le cucine in mano ai collaboratori. La Mantia ha ricordato, invece, quanto il mestiere non sia tanto da riflettori quanto da pesante fatica quotidiana alla ricerca del soddisfacimento del cliente, che se mangia bene torna, altrimenti se ne va altrove. A commentare queste parole è stato in studio Agostino Buillas, Chef stellato del "Café Quinson" di Morgex. Originario della Bassa Valle, Buillas ha la caratteristica di lavorare da solo in cucina senza una squadra ed è credo un caso particolare di un "one man cooking" nel quotidiano, che mostra una passione incredibile e manifestata con una continua ricerca di formule di valorizzazione dei prodotti locali di qualità, che fa di lui uno sperimentatore senza eguali. Interessante dell'evoluzione del mercato è la scelta della sua famiglia di realizzare nel locale, al centro del paese, una serie di camere per gli ospiti, che - pronte per Natale - soddisferanno una richiesta crescente della clientela, specie estera, perché una bella serata al ristorante, specie se accompagnata dai giusti vini e magari dai distillati di fine pasto, ormai impedisce di muoversi per le severe e comprensibili norme che impediscono di salire in macchina se si è bevuto un goccetto in più. Confesso che anche a me è capitato di scegliere una forma analoga di pernottamento, perché altrimenti la giusta preoccupazione di incorrere nel test dell'alcool impedisce quel completamento che un bel menu ha assieme all'accompagnamento delle bevande giuste. In trasmissione c'erano anche un decano della "Associazione cuochi valdostani", Antonio Salvatore, ed un giovane cuoco, Piero Billia, di origine walser (con una cucina di stampo germanico "povera" ma piena di sorprese e gusti). E' interessante questa scelta, che fu fatta una trentina di anni fa, di avere un luogo di confronto e di discussione per gli Chef che sono nati o operano in Valle. Per altro la loro testimonianza conferma un fatto preclaro. Quando ero bambino, molti ristoranti in Valle offrivano una cucina con pochi piatti valdostani, per non dire dei vini quasi tutti di importazione, mentre oggi è il turista stesso, ma anche il valdostano, a pretendere che nelle proposte dei ristoranti - non parliamo naturalmente di quelli etnici con cucine d'altrove - ci sia un'attenzione ai prodotti locali (con produttori ormai che spaziano a largo spettro) ed alla loro trasformazione. Colpisce come Buillas segnali come un prodotto semplice come la "Fontina" si possa trasformare, grazie alla tecnica e alla fantasia, in proposte molto diverse le une dalle altre nell'infinita gamma che porta dal salato al dolce. Mi ha colpito anche il giovane Christian Voyat di Montjovet, poco meno che ventenne e della storica famiglia dello storico ristorante "Napoléon", che ha già tracciato - dopo aver frequentato la storica "Scuola alberghiera" di Châtillon - un destino di apprendimento all'estero per entrare sempre di più nel mestiere di Cuoco, ma immaginando poi - come vocazione - quella di utilizzare i prodotti valdostani per presentarli nel loro possibile e poliedrico impiego. La rassicurante certezza che ci saranno nuove leve per la ristorazione in Valle.