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22 apr 2016

Quel lavoro "valdostano" sulla donazione degli organi

di Luciano Caveri

Mi capita talvolta, specie con gli amici o in riunioni politiche o anche attraverso questo blog, di annotare ricordi delle mie esperienze politiche. Raramente avviene ormai in occasioni pubbliche, come invece accaduto ieri, in occasione della celebrazione finale dei quarant'anni dell'"Aido" (donatori di organi) in Valle d'Aosta. Sono stato invitato perché per una ventina d'anni grazie all'entusiasmo che c'era in questo gruppo valdostano diventai, prima alla Camera a Roma e poi al Parlamento a Bruxelles, un "lobbista buono" in favore della donazione degli organi e della pratica salvavita dei trapianti. Ho già scritto di aver provato poche volte la soddisfazione che ho avuto, quando vidi pubblicata la legge numero 91 del 1° aprile 1999, il cui titolo recita "Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti", perché avendola seguita sin dalla presentazione come primo firmatario e poi in ore e ore di discussioni (solo in parte presenti nei resoconti sommari e stenografici a Montecitorio) sino all'agognata approvazione.

Si trattava del coronamento di anni di lavoro parlamentare nato in seguito ad un rapporto fruttuoso - come dicevo - con la "Associazione italiana donatori di organi", ma anche con tanti medici che si occupavano con passione e dedizione al settore. Studiare l'evoluzione della storia delle donazioni in seguito ai progressi della scienza medica è un argomento appassionante, così come per anni mi ha fatto piacere trovare persone trapiantate - che sapevano del mio "ruolo motore" per una legge che semplifica la donazione - che mi ringraziavano. Ricordo anche, come uno degli elementi scatenanti per giungere ad una dichiarazione personale e spontanea di autorizzazione alla donazione, quando un amico di Verrès mi telefonò, dopo un drammatico incidente di un figlio, finito in "rianimazione" a Torino dove morì, per chiedermi cosa dovesse fare con i medici che sollecitavano l'atto di donazione del figlio (era sempre così per tutti prima di quella legge!) e lui alla fine rifiutò e per me fu una sconfitta, perché con comprensibile amore paterno mi diceva «lo vedo ancora respirare», anche se la morte cerebrale era scientificamente inoppugnabile, checché ne dicano i complottisti. Ricordo anche - a questo proposito - gli indottrinati avversari della legge: all'epoca ricevevo feroci poste elettroniche della "Lega contro la predazione degli organi" - cui avevo chiesto di essere cancellato dalla loro mailing list - in cui sostanzialmente mi auguravano di... «morire presto». L'ho considerata, dopo gli opportuni gesti scaramantici, come una medaglia al valore e nel caso fossi morto tutti sapevano che avrei donato quanto potesse essere utilizzabile di me per chi attendeva, nella speranza di una vita migliore. Ancora oggi purtroppo non esiste corrispondenza fra chi è in lista d'attesa ed un organo donato, malgrado i passi da gigante della medicina e pensando che solo grossomodo un secolo fa si avviavano quelle scoperte scientifiche che oggi consentono dei miracoli. Il legislatore è su questa progressione dunque costretto ad inseguire la realtà, fattasi complicatissima, pensando a questioni assai delicate come le biotecnologie, le ricerche sulla genetica e temi morali che vanno affrontati, come la regolamentazione dell'eutanasia... Per anni ho cercato di fare del mio meglio, in periodi piuttosto difficili per i molti pregiudizi e persino le leggende metropolitane sugli espianti, che trasformavano in modo grottesco i medici in persone pronte a tutto pur di togliere un organo e metterlo su di un altro corpo. La modernizzazione delle vecchie normative, proseguita poi oltre al lavoro parlamentare di allora, sgravando di fatto - quando si sia scelto in vita - il terribile ruolo di dei parenti nei corridoi degli ospedali, ha portato alla possibilità per ciascuno di noi di decidere per tempo se essere o no disponibili a donare un organo. Inutile dire che sono favorevolissimo a fare in modo che un pezzo di me, quando sarò morto, possa diventare - se ce ne saranno le condizioni - un "pezzo di ricambio" per un malato in attesa. Una staffetta tra vita e morte che è un atto di umanità e valorizza un settore della medicina che ha visto progressi continui e persino stupefacenti. Ero bambino, ma la cosa mi impressionò grandemente, quando nel 1967 il chirurgo Christian Barnard eseguì, fra molte polemiche, il primo trapianto cardiaco al mondo con successo. Era difficile capire che quel caso, come poi per molti altri organi, alcuni trasferibili anche da un donatore vivente, avrebbe creato un precedente che aumenta nella vastità dell'attuale casistica di interventi la possibilità di vita per chi, invece, non avrebbe avuto in passato nessuna chance. Sono progressi dell’umanità di cui - in mezzo a tanti orrori - bisogna andare sinceramente fieri.