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08 feb 2016

Renzi e il Manifesto di Ventotene

di Luciano Caveri

La notizia è nota e dimostra l'incredibile attivismo del Premier Matteo Renzi, che ha un'agenda di spostamenti che fa impressione e che spazia, in un modo multiforme, da un settore all'altro della società italiana, spesso anche con palesi contraddizioni e cambi di rotta, di cui buona parte dell'elettorato sembra almeno per ora non accorgersi. Nei giorni scorsi, Renzi, insieme al ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, ha visitato l'isola di Ventotene dove, al confino perché non in linea con il fascismo, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni ed Ursula Hirschmann (che fu moglie prima di Colorni e poi di Spinelli) scrissero a più mani nel 1941 il celebre manifesto "Per un'Europa libera e unita", poi conosciuto appunto come "Manifesto di Ventotene".

Nel periodo più cupo della guerra questo documento fu una specie di luce europeista ante litteram, immaginando che cosa sarebbe potuto succedere, in chiave federalista, in un dopoguerra ancora ben distante e soprattutto in un un momento della Seconda Guerra Mondiale molto incerto nei suoi esiti. Il presidente del Consiglio è stato, nei discorsi fatti nella piccola isola, molto europeista, sostenendo fra le altre cose: «Da qui vogliamo dire con decisione e tenacia che chi vuole distruggere "Schengen" vuole distruggere l'Europa e noi non glielo permetteremo. Siamo qui per dire che l'Europa non può essere solo un grigio dibattito tecnico sui vincoli ma deve tornare a essere un grande sogno». Il "Manifesto di Ventotene", molto citato ma temo poco letto nella politica italiana, è in effetti una visione fondamentale - pur storicamente e soprattutto ideologicamente datata - del processo d'integrazione europea. Ma l'omaggio di Renzi sembra in qualche modo essere dissonante con le sue azioni a Bruxelles. Lo scriveva domenica il fondatore di "Repubblica", Eugenio Scalfari: «Mi rallegro molto con Renzi per questa visita a Ventotene in ricordo ed omaggio all'europeismo di Spinelli (di Rossi non ha mai parlato come se quella firma fosse inesistente) ma forse Renzi non si è mai battuto per gli Stati Uniti d'Europa, cioè per un'Europa federata e non soltanto confederata. In questi ultimi tempi Renzi si è anzi distinto per il suo contrasto con la Commissione europea, battendo i pugni sul tavolo, tenendo in testa il cappello e riaffermando l'autonomia dei governi nazionali i quali, sia pure nel quadro delle regole europee, debbono avere piena libertà di applicarle nei tempi e nei modi decisi autonomamente dai rispettivi governi. E' vero che esistono temi che l'Europa ha finora lasciato nelle mani dei governi nazionali, ma è vero anche che le regole sono emesse dalla Commissione dopo l'approvazione del Consiglio dei ministri dei ventotto Stati membri e dal Parlamento di Bruxelles. Rafforzare l'autonomia degli Stati nazionali, i quali detengono la sovranità collegiale della confederazione col voto spesso unanime e talvolta a maggioranza qualificata significa non già rafforzare l'Unione europea ma indebolirla ulteriormente. Renzi si sta dunque muovendo su una strada di totale ma consapevole incoerenza, che è già stata negativamente giudicata anche da Giorgio Napolitano oltreché dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, ma che non pare sia stata adeguatamente sostenuta dall'opposizione interna del Partito Democratico che si definisce più a sinistra di Renzi». Insomma, un'evidente distonia tra azioni reali e pensieri che tendono a creare un Renzi dal pensiero poliforme ed apparentemente progressista in evidente contraddizione con quanto, invece, avviene di fatto. Ma la propaganda tende a riportare tutto in una logica lineare e dinamica con straordinarie operazioni di mascheramento. Se poi dal federalismo europeo ci spostiamo sul federalismo in Italia, allora la contraddizione diventa enorme. La riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum nel prossimo autunno è dimostrazione macroscopica di due elementi che nulla hanno a che fare con il pensiero federalista. Da una parte, infatti, si valorizza l'Esecutivo - con la Presidenza del Consiglio così valorizzata al limitare di una scelta autoritaria - a detrimento del Parlamento dimezzato con un finto Senato delle Regioni. Dall'altra proprio le Regioni - vero nucleo di un federalismo all'italiana - vengono messe in ginocchio a vantaggio di uno Stato che tutto fa e decide con la nuova diavoleria biforcuta tutta nella definizione incredibile "unità giuridica o dell'unità economica dello Stato"! Questo significa umiliare quel principio di sussidiarietà (soppresso non a caso nell'articolo 114 della Costituzione ora in vigore), che avrebbe dovuto liberare l'Italia da un eccesso di statalismo. Prossima tappa sarà la logica macroregionale, che nel caso della Valle d'Aosta equivarrebbe all'uso di una ghigliottina sul patibolo. Bisogna vigilare su questi avvenimenti, perché fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Ogni tanto la Storia ha brusche accelerazioni: si sale su una specie di scivolo e si va fino in fondo, senza più poter fermare la corsa e poi, giunti in fondo, certe vicende diventano irreversibili. Basti pensare al destino della Valle d'Aosta quando l'accentramento settecentesco fece dello Stato Sabaudo una Stato centralizzatore o alle triste vicende seguite all'Unità d’Italia ed ai drammi della dittatura fascista. La Libertà, tanto evocata dal "Manifesto di Ventotene", creò un momento utile per dare ai valdostani l'attuale autonomia speciale, che è una favilla del federalismo sperato presente nell'altra dichiarazione degli anni di guerra, quella di Chivasso, scritta da valdostani e valdesi, chiarissima sui temi della montagna e delle minoranze linguistiche e religiose e federalista sin nel midollo. Ma certe condizioni mutano ed oggi, da area apparentemente progressista e nel nome di un concetto distorto dell'eguaglianza, si attenta ad Autonomie antiche come la nostra e lo si fa come se nulla fosse, anche con il collaborazionismo di chi dovrebbe resistere e preoccuparsi, ed invece si accoda a certi disegni politici e costituzionali.