Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
21 gen 2016

Il paravento del "politicamente corretto"

di Luciano Caveri

Il "politicamente corretto" lo si è visto in azione in Italia in tre occasioni recentissime. Il primo caso sono state le vicende di Colonia e la "caccia alla donna" di gruppi, segnatamente islamici, nella notte di Capodanno. Molti commentatori o sono stati zitti o si sono arrampicati sui vetri nell'esercizio di commentare certi comportamenti criminali degli assalitori, scegliendo un approccio morbido per non dare il destro all'accusa di xenofobia. Insomma, mettere la sordina ai propri cattivi pensieri. Idem sulla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi: operazione di stampo autoritario, che centralizza su un sol uomo e solo a Roma la politica italiana. Molti intellettuali sono stati zitti nel nome della prevalente antipolitica e per non correre il rischio di passare per conservatori di fronte al giovane riformista.

Il terzo caso è la serie di "detto e non detto" sulla questione delle "unioni civili", necessarie in un Paese normale che si è avvitato in discussioni oziose sul punto, mentre si tende a fare i vaghi sulla questione delle forme più o meno allargate di adozione, in particolare quando collegate alle modalità varie di procreazione assistita. Spicca così la logica cerchiobottista del "politicamente corretto". Ho letto con curiosità quanto il professor Arnaldo Testi, professore di storia e delle istituzioni delle Americhe, scrisse un annetto fa sul suo "Short cuts America" e di cui mi permetto di citare la prima parte: «Dall'inizio degli anni Novanta, nel discorso pubblico americano, i termini "politically correct" e "political correctness" fanno parte del lessico politico-ideologico della destra. Definivano (e definiscono) idee, atteggiamenti, approcci culturali conformi a una supposta ortodossia progressista - radical o liberal che sia, senza distinzioni troppo sofisticate - che sarebbero promossi dalla egemonia della sinistra nelle istituzioni, nelle scuole, nelle università, nei mass media. Si tratta dunque di un insulto di parte, che denuncia sia la qualità del prodotto che la procedura per imporlo, che arriverebbe fino alla negazione della libertà di parola a chi non si adegua. Alle origini, in effetti, la locuzione apparteneva alla sinistra. Era nata fra i comunisti degli anni Trenta, ed era rimasta nel linguaggio di alcune componenti della "New Left" negli anni Sessanta, quando implicava essere in linea con una "giusta" interpretazione del mondo, marciare insieme con il Partito e con la storia. Negli anni Settanta cominciò a prevalerne, negli stessi ambienti di sinistra, un uso ironico e autoironico, magari in chiave un po’ elitaria e radical-chic: per dire, l'hamburger non è PC (unìaltra sigla usata è "p.c."), la rucola sì. E' negli anni Ottanta che è diventata patrimonio di destra, nel clima di ripresa della cultura conservatrice sotto l'amministrazione Reagan, quando "liberalism" era diventata una parolaccia impronunciabile. Dal 1990 era entrata nell'uso corrente giornalistico. Alla fine di quell'anno il settimanale "Newsweek" gli dedicò una cover story dal titolo orwelliano di "Thought Police", polizia del pensiero, psicopolizia. Cominciò a meritare anche l'attenzione della satira politica e di costume, che trovò argomenti su cui sbizzarrirsi soprattutto nel campo della "riforma" del lingua (i "diversamente vedenti", eccetera). Al centro della diatriba sulla "correttezza politica" stavano alcune idee-chiave che avevano a che fare con i concetti di multiculturalismo, femminismo e "gender theory", postcolonialismo ed "identity politics", e con le loro derivazioni teoriche e pratiche, in particolare per ciò che riguardava la ricerca e l'insegnamento delle scienze umane e sociali nelle scuole e nelle università, e le politiche di "affirmative action". Intorno al 1990 la polemica di destra si concentrò sugli effetti di tutto ciò nelle istituzioni culturali, soprattutto quelle accademiche». Interessante, vero? Perché il senso polemico nello scontro politico americano ha finito per dilavarsi nell'uso italiano, pure provinciale, che sbandiera invece il "politicamente corretto", troppo spesso nella sua versione più ottusa e guardinga, tale da paralizzare molti ragionamenti "per paura di...". Di fatto una una sorta di censura preventiva assolutamente ridicola. Per cui bisognerebbe armarsi di santa pazienza e riportare un pochino di buonsenso e chiamare le cose con il loro nome, senza doversi trincerare dietro il "politicamente corretto".