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06 ott 2015

La triste sorte del ruffiano

di Luciano Caveri

Uno degli aspetti positivi di una piccola comunità, come può essere la Valle d'Aosta, sta nel fatto di conoscersi tutti. Capita così che ad una cena, nelle chiacchiere conviviali, si incrocino parentele e amicizie, scoprendo con facilità che è ancora più vivente nei numeri limitati quel discorso a livello planetario, noto come la "teoria dei sei gradi di separazione", ben nota in semiotica e in sociologia. E' la famosa ipotesi, risalente agli anni Venti del secolo scorso, ma validata persino con metodi informatici, secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari. Ovviamente questa rete di conoscenze così fitta crea anche dei personaggi assolutamente straordinari, in quella sorta di Commedia che finisce per essere la vita quotidiana, degna di un Molière o di un Goldoni, cioè di chi riesce a stilizzare le caratteristiche degli uni e degli altri. Esemplare di questo bestiario, cui nessuno - me compreso - finisce per essere estraneo nelle miniature caratteriali che possono incasellare tutti, c'è una figura a me particolarmente odiosa, avendo fatto politica per tanto tempo. Ed è una personalità che si avvicina come il ferro ad un magnete a chi, in un certo momento, detiene qualche forma di potere, per poi allontanarsene, quando non risulta più utile al proprio tornaconto.

Mi riferisco al "Ruffiano", che ha due significati: il primo è la persona che per convenienza propria agevola gli amori altrui ("magnaccia", "pappone", "garga" ed infinite altre dizioni), il secondo - che ci interessa qui - è la persona che ostenta una servile e opportunistica adulazione. L'"Etimologico" spiega la complessità e in parte l'indeterminatezza delle origini: "giovani - Etimologia controversa e mai risolta in modo del tutto persuasivo, come avviene spesso per le voci che appartengono a questo settore del lessico: l'alternativa più seguita parte dal latino "rufus - rosso" seguendo diversi percorsi, ma le motivazioni da "rosso", sia che alludano ai pregiudizi popolari riguardo alle persone con i capelli di questo colore, sia che facciano riferimento alle parrucche bionde portate dalle prostitute, sono troppo deboli rispetto alla connotazione fortemente peggiorativa di cui è carica la coppia "ruffiana" e "ruffiano", e per di più "rufus" ha scarsa vitalità nel dominio romanzo e in quello italoromanzo in particolare. Seguendo la linea interpretativa proposta dal Battisti ("Dei"), che muove dai continuatori romanzi del longobardo "hruf - crosta, forfora" (alto tedesco "ruf - crosta" - "roffia"), ben attestati e vitali in ambito italoromanzo, e ritenendo la forma femminile prioritaria rispetto a quella maschile, è possibile muovere da "roffia", usato come metafora fortemente volgare di "prostituta", con procedimento analogo al gergale "scaglia", da cui il derivato "ruffiana" col significato testimoniato nei testi più antichi di "vecchia prostituta", che non è più in grado di esercitare la professione e fa da mezzana alle prostitute più giovani". Incredibile come le parole ti facciano penetrare in un meandro. Vi è poi - straordinario caso - del "cavallo ruffiano", che così si può sintetizzare. Come ben si sa, anche se bisogna tenere conto della fecondazione artificiale che ha rotto un pochino il giocattolo, lo "stallone" è il cavallo destinato alla riproduzione. Ma per evitare di prendersi i calci in faccia dalla cavalla con cui riprodursi, a scaldare l'ambiente ci pensa, lo "stallone ruffiano", appositamente vasectomizzato per non ingravidare nessuno. Appurata la disponibilità riproduttiva della cavalla, esce di scena e spunta lo stallone. Povero ruffiano, assomiglia proprio a chi, passando da uno all'altro, cerca di raccattare favori, ma certi sui slalom dagli uni agli altri finiscono per essere notati.