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13 lug 2015

Gelatai alpini

di Luciano Caveri

Pare che il caldo terribile di questi giorni sia destinato ad attenuarsi, ma intanto picchiato ha picchiato duro, prefigurando cosa vorrà dire, se non ci sarà serietà sul riscaldamento globale e le sue conseguenze, mettere le Alpi dentro un forno. In queste ore credo tutti abbiano goduto con gioia dei gelati. Viviamo in uno strano mondo: quando ero bambino, in pieno boom economico, la grande libidine era passare dal gelato artigianale al gelato confezionato. Oggi anche i gelati confezionati fingono un'origine artigianale e quelli davvero artigianali prosperano in un'indiretta polemica con i prodotti industriali. Tutto cambia, insomma. Dando per scontato che i due capisaldi della mia vita sono stati il gelato artigianale di quando ero molto piccolo dalla Signora Vinzia, lattaia e gelataia di Verrès, quando i due mestieri erano interconnessi e poi il ricordo - con quell'odore di salsedine che mi torna nelle narici, depositato com'è in un angolo della memoria - i prodotti della gelateria "Romolo" di Porto Maurizio, Imperia, quando si passava dal gelato con la famiglia come mondanità serale, ai gelati consumati autonomamente come senso di affermazione adolescenziale.

Ho passato alcuni anni della mia vita in giro per le Alpi, seguendo i diversi percorsi del mio curriculum politico. Quando andavo a Belluno, nelle Dolomiti venete, lo facevo sempre con una curiosità suppletiva, visto che mio papà era nato per caso lì, seguendo la carriera prefettizia di suo papà, mio nonno. Durante una di queste visite, scoprii una sfaccettatura a me sconosciuta dell'emigrazione alpina, in parte stagionale e in parte diventata stanziale, che si riferisce proprio alla gelateria. Traggo da un sito dei gelatai bellunesi questi appunti istruttivi e in parte divertenti. La premessa ricorda, in modo ciclico, quanto ha spinto popolazione alpine - valdostani compresi - a lasciare la propria terra d’origine: "La seconda metà dell'Ottocento vide una gravissima crisi imperversare nelle valli venete, zona bellissima dal punto di vista paesaggistico, ma dove è difficile vivere specie in inverno. La zona che ci interessa è soprattutto quella del Cadore, la parte più settentrionale della provincia di Belluno, a ridosso del Tirolo austriaco. E' la zona oggi divisa fra i comuni di Forno di Zoldo, Zoldo Alto e Zoppè, dove l'isolamento delle montagne ha conservato un dialetto particolare, il ladino veneto. Qui la gente viveva di pastorizia e agricoltura: fave, orzo, fagioli e poco altro fino a quando nel Settecento si introdussero il mais e poi la patata. E' noto come una dieta a base di polenta, se da un lato evitava la fame, dall'altro causava la pellagra, a causa della scarsità di vitamine. Più redditizia era la produzione di latte e prodotti caseari e soprattutto la produzione di legname. La vera ricchezza di queste zone erano i boschi di larici e abeti, che venivano tagliati per essere utilizzati nell'edilizia, venduti a cantieri, utilizzati nelle piccole ma numerose miniere della zona (l'attività di lavorazione del ferro è attestata nella valle di Zoldofin dal Medioevo) e per produrre carbone. Agli inizi dell'Ottocento, in molte zone, dove non si era mai pensato al rimboschimento, il legname cominciò a scarseggiare. Inoltre il passaggio dal governo della Serenissima repubblica di Venezia, all'impero austriaco, accrebbe l'isolamento del territorio, a cui va aggiunto il passaggio al sistema industriale. Se prima erano centinaia le fusinèle che fabbricavano lungo i torrenti di montagna chiodi, chiavi e attrezzi da lavoro, la cui fama era diffusa in tutto il Lombardo Veneto (i bisturi di Agordo erano più ricercati di quelli inglesi), nel corso dell'Ottocento la concorrenza dei prodotti industriali a più basso prezzo si fece sentire. A ciò va aggiunta una notevole crescita demografica, e soprattutto, sul finire del secolo, una natura impietosa: disastrose alluvioni riducevano le famiglie sul lastrico, portando via case, fienili, stalle e piccole officine. L'economia cambiava: si incrementò l'artigianato artistico, nel 1877 fu fondata la fabbrica di occhiali dei fratelli Lozza, Cortina cominciò ad essere meta di un turismo che ancora oggi non conosce crisi. Tuttavia nelle zone marginali la situazione era drammatica e la gente cominciava ad emigrare in cerca di lavoro. Non era un fenomeno nuovo, essendo testimoniato fin dal Cinquecento: è da Pianaz che nel Settecento si erano mossi i Colussi per andare a produrre i loro biscotti a Venezia". Cosa c'entra il gelato? Ecco la spiegazione: "Dal Cadore gli uomini scendevano a valle per vendere dolci (come gli zalet, i biscotti di farina di mais), pere cotte e frutta caramellata. (...) L’abbondanza di ottime materie prime (come il latte, la panna, le uova, i frutti di bosco, ma anche neve e ghiaccio naturali) aveva spinto i bellunesi a cercare di produrre gelati da vendere Oltralpe, utilizzando quei carrettini che durante l'inverno servivano a commerciare caldarroste e mele caramellate. L'ordinamento austriaco prevedeva, per poter svolgere una attività, il rilascio di una licenza. Era così fin dagli anni Venti e la più antica giunta fino a noi relativa ad un offelliere (era questo il termine con cui si indicavano i pasticcieri) veneto è quella di Giovanni Pampanin Duanuta che l'ottenne nel 1847. (...) Nel 1894 però l’Amministrazione viennese negò agli italiani la licenza di ambulanti, per evitare che facessero concorrenza ai venditori di dolciumi austriaci. I valligiani bellunesi pensarono allora di affittare piccoli negozi che arredarono spartanamente con semplici panche e illuminarono con una lanterna. Il fenomeno si estese e agli inizi del Novecento l’emigrazione dei gelatieri si incrementò per continuare, in misura sempre maggiore, fino alla prima Guerra Mondiale, quando subì una pausa di arresto. Durante la guerra, infatti, gli emigrati gelatieri dovettero abbandonare i Paesi ospiti divenuti nemici, perdendo quasi tutti i loro averi. Pochi anni dopo la fine della guerra, tuttavia, in quasi tutta Europa, in Germania, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Francia e Polonia, si riaprirono gelaterie artigianali che in breve riconquistarono il mercato, dove non si era spenta la memoria del gelato prodotto in passato". Ma esisteva anche un altro sbocco commerciale: "Non dobbiamo poi pensare che i gelatai veneti se ne andassero solo all'estero: in estate per esempio si affacciavano sulle coste italiane, dove non era difficile trovare il ghiaccio perché veniva usato per conservare il pesce. Infatti la scelta di dove dirigersi raramente era dettata dal gusto personale, ma piuttosto da una serie di situazioni favorevoli, prima fra tutte la possibilità di avere a disposizione le materie prime, soprattutto il ghiaccio. Se le prime fasi (la prima compresa fra il 1880 e il 1915 e la seconda fra il 1920 e il 1939), avevano visto la migrazione prevalentemente di cadorini e zoldani verso Vienna e le altre città dell'Impero austro-ungarico, verso Prussia-Germania e da lì fino alla costa baltica, il fenomeno si evolvette nei decenni successivi. Una terza fase dell'emigrazione veneta è quella databile dal 1949 al 1975 circa, che vede l'ampliarsi del fenomeno migratorio: oltre ai cadorini e agli zoldani emigrano anche bellunesi, trevigiani e friulani: che si dirigono verso la Repubblica Federale Tedesca, nel bacino della Ruhr, lungo il Reno e nelle città industriali, come Berlino, Hannover, Stoccarda, Monaco. L'ultima fase del fenomeno, quella più recente successiva la 1980, vede infine una diffusione sempre più capillare delle gelaterie italiane in Germania. A partire dal 1989, con la caduta del muro di Berlino, la migrazione investe anche l'ex-Repubblica Democratica Tedesca". Sono storie appassionanti, che parlano di coraggio e determinazione, in ambienti spesso ostili e con una mobilità che oggi, pensando ai periodi storici in cui questo è avvenuto, fa impressione.