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21 giu 2020

Perché l'omertà è complicità

di Luciano Caveri

Seguo il processo sulla 'ndrangheta in corso al Tribunale di Aosta attraverso le cronache coraggiose di Christian Diémoz, cui mi lega un'antica amicizia e stima. Riesce a far vivere le lunghe udienze con un linguaggio piano e senza fare sconti. La cronaca giudiziaria è difficile nel districarsi nelle pieghe del dibattimento e degli sconti fra accusa e difesa. Personalmente aspetto l'esito della corte giudicante, ma questo non vuol dire affatto non essersi fatto un'idea sul giudizio morale di certo sottobosco (E pure il bosco...) della politica, che prescinde persino dalle posizioni singole degli accusati. Saranno le sentenze, nel lungo percorso fra primo grado, Appello e Cassazione, a svelarci quanto necessario e molti nell'ambiente dicono che non sarà un unicum e nuove storie si profilano all'orizzonte.

Non lo annoto con soddisfazione, ma con mestizia, perché l'onorabilità della Valle più si abbassa e più cresce il rischio che l'Autonomia venga messa in discussione, essendo basata non solo su diritti ma anche su doveri e su di una credibilità che una volta offuscata risulterà difficile da riconquistare. Par di capire che fra i testimoni nell'aula del Tribunale qualcuno abbia perso la memoria rispetto a dichiarazioni rese in passato e soprattutto qualcuno sembra dimenticare il contenuto di certe intercettazioni validate, giorni fa, dai giudici e che entreranno a pieno negli elementi di giudizio su cui basare le decisioni finali. Anzi, a naso direi che qualcuno rischia pure la falsa testimonianza. Mi veniva in mente di parlarvi dell'omertà come rischio strettamente connesso con situazioni di cui diffidare. Se si prende la "Treccani" si squarcia con chiarezza il significato di questa parola, che fa impressione sentire rimbombare come un eco fra le nostre montagne: "omertà, variante napoletana di "umiltà", dalla "società dell'umiltà", nome con cui fu anche indicata la camorra per il fatto che i suoi affiliati dovevano sottostare a un capo e a determinate leggi. In origine, la consuetudine vigente nella malavita meridionale (mafia, camorra), detta anche legge del silenzio, per cui si doveva mantenere il silenzio sul nome dell'autore di un delitto affinché questi non fosse colpito dalle leggi dello stato, ma soltanto dalla vendetta dell'offeso. Più genericamente, nell'uso odierno, la solidarietà diretta a celare l'identità dell'autore di un reato e, con senso ancora più estensione, quella solidarietà che, dettata da interessi pratici o di consorteria (oppure imposta da timore di rappresaglie), consiste nell'astenersi volutamente da accuse, denunce, testimonianze, o anche da qualsiasi giudizio nei confronti di una determinata persona o situazione: tutti sapevano, ma nessuno osò infrangere il muro dell'omertà". Scrive Roberto Saviano, che è stata la voce più forte nel raccontare la sua Campania, ma con valenza ormai mondiale di una criminalità organizzata, che si è impiantata dalle sue radici in Calabria anche da noi: «La nuova omertà, figlia della cultura mafiosa, non nega l'esistenza delle mafie, dice semplicemente: "Sono cose che si sanno". Ciò che anni fa si declinava con "tutte balle, non esiste la camorra" o "la mafia è un'invenzione dei giornali", oggi si esprime dicendo "lo sanno tutti". Le nuove generazioni dell'omertà non negano, ma banalizzano, portano tutto a una dimensione fisiologica del fenomeno». Sento presente anche in Valle questa banalizzazione, mentre forse bisognerebbe chiedersi cosa c'è a piani più alti di quelli già oggi illuminati dagli inquirenti. Allora serve quella dura che fu Oriana Fallaci, senza peli sulla lingua per difendere le sue idee: «Vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre». Confesso come, qualche anni fa alla "Fiera di Sant'Orso", mi venne da sorridere, di fronte ad un banco di un espositore, che aveva intagliato nel legno le famose tre scimmiette sagge Ricordate di che cosa si tratta? Una chiude gli occhi, un'altra si tappa le orecchie, la terza si chiude la bocca. So bene come questa iconografia abbia di fatto stravolto il significato della statua originaria con le scimmiette guardiane in Giappone del santuario shintoista di Toshogu a Nikko, costruito nel 1617. All'origine le tre scimmiette avrebbero questo senso positivo e ammonitore: non vedere il male ("Mizaru"), non sentire il male ("Kikazaru"), non parlare del male ("Iwazaru"). Insomma, comportarsi bene! Invece le tre scimmiette, anche negli emoticon sui "social" sembrano diventate, sbagliando, un inno omertoso del tipo: «chi si fa i fatti suoi, campa cent'anni». L'appello contro il Male dunque resta quello cui attenersi, mentre sull'omertà ha ragione don Luigi Ciotti: «La prima mafia si annida nell'indifferenza, nella superficialità, nel quieto vivere, nel puntare il dito senza far nulla e girarsi dall'altra parte. L'omertà uccide, la verità è la speranza».