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07 set 2019

Una analogia politica Roma-Aosta

di Luciano Caveri

Sulla lunga distanza appare in politica la persistenza delle radici democristiane in un Paese, l'Italia, che sembra - come in un crudele "Gioco dell'oca" - dover tornare indietro con più o meno tenebrose nostalgie del passato e scarsa propensione a guardare al futuro, pur dicendo in troppi esattamente il contrario. Esiste quel misto infallibile di peccato e perdono che avvolge la politica della Repubblica con profonde eredità precedenti, che persistono come una sorta di maledizione e ci si abitua a tutto nel peggiore dei modi con una sorta di cupa rassegnazione Giuseppe Conte a Roma e Tonino Fosson ad Aosta sono un esempio chiarissimo. Rappresentano poco più che loro stessi ed invece sono al vertice dei rispettivi Governi. Fosson ha fatto parte di coalizioni diversissime e l'importante è sempre stato l'impegno per rimanere in sella. Conte naviga con sicumera le medesime rotte, passando con dimestichezza dai "giallo-verdi" ai "giallo-rossi" e fa lo stupito con chi lo accusi del vecchio vizio ottocentesco del trasformismo.

Li accomuna una clamorosa nonchalanche con annesse benedizioni, visto che non hanno mai avuto difficoltà ad ostentare la loro fede. Questo è il destino italiano, che ha piano piano invaso anche la Valle d'Aosta e non è frutto del cattolicesimo, che pur essendo una imprescindibile radice culturale non è religione di Stato, perché non siamo uno Stato teocratico ed il pluralismo religioso è un principio costituzionale. Ma esiste semmai e rispunta come una condanna una logica democristianissima che consente a chi veste certi abiti di muoversi sullo scacchiere politico con grande naturalezza, come se ci fosse sempre un confessionale dove entrare, che giustifichi ogni salto davanti, indietro e di lato. La moralità che si invoca come elemento basilare parrebbe non valere per la politica, perché la fede e i suoi obblighi conterebbero solo - così pare - nell'intimità della propria coscienza, mentre nello scenario pubblico essere camaleonti sembrerebbe essere chissà quale pregio. Specie perché quel certo saltabeccare, sempre con eleganza e verginità, non rientra fra i Dieci Comandamenti da rispettare, che poi si sa fra uomini di mondo come in fin dei conti i peccati possano comunque essere attenuati da un sincero pentimento. Persino e per paradosso la Repubblica, essendo laica per definizione, potrebbe essere considerata da alcuni come un exclave dove ci si può muovere con qualche malizia in più senza sentirsi in colpa con la famosa coscienza con cui bisognerebbe fare il ben noto esame. Ha ragione Piero Calamandrei e lo si è visto con Conte e con Fosson sui dossier più delicati di questi mesi: «Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa'». L'apoteosi di questo "tiriamo a campa'" è l'intrigo politico come antidoto di fronte all'elementare logica di elezioni anticipate, come avviene in tutte le democrazie parlamentari quando si dimostri necessario. Da noi, ad Aosta come a Roma, sorgono maggioranze bizantine che sembrano puzzle dadaisti pur di evitare le urne in una logica di autotutela di chi ha ottenuto un seggio e non vuole trovarsi nella lotteria del voto. Dunque vuole resistere, assumendo posture da salvatore della Patria, invece è la sopravvivenza politica la vera ragione di qualunque alchimia. Chiodi sulla bara sono queste parole di Indro Montanelli: «Una delle eterne regole italiane: nel settore pubblico, tutto è difficile; la buona volontà è sgradita; la correttezza, sospetta. Per questo, le persone capaci continueranno a tenersi a distanza di sicurezza dalla "cosa pubblica", lasciando il posto ai furbastri (magari bravi) e alle mezze cartucce (magari oneste). Così, purtroppo, vanno le cose in questo bizzarro paese». E pensare che la speranza per la nostra Valle nell'immediato dopoguerra era quella di diventare una sorta di cantone svizzero nell'Italia liberata. Invece i virus nazionali si sono diffusi e si sono accentuati con vizi e virtù di una politica che oggi ha creato maggioranze bislacche prima ad Aosta - laboratorio politico alla dottor Frankenstein - e poi a Roma dove al già dubbioso Governo Conte succederà a breve l'ancora più strano "Conte bis" e Giuseppe Conte troneggia, più come tronista piacione che come statista. Conta poco che a Palazzo Chigi, come in piazza Deffeyes dove si resiste più che a Roma, ci sia un presidente svagato e con scarse conoscenze dei problemi da affrontare. E' prioritario durare, effettuare giravolte, rinviare, raccontare che tutto va bene, come se la realtà in fondo contasse poco in un contesto che sembra fatto apposta per andare lentamente a picco. E così sia.