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07 ago 2019

L'orologio da polso

di Luciano Caveri

Tocca partire da vicino e poi chissà se riuscirò ad andare più lontano. L'orologio da polso è un oggetto in voga da un tempo relativamente breve: leggo che il primo, ad uso femminile, risale al 1868. Ma è nel Novecento che si afferma come oggetto per misurare il tempo, che diventa poi oggetto di moda e persino status symbol, modernizzatori con varie aggiunte e scoperte. Io ho avuto il primo - come da copione - alla Prima Comunione e poi ne ho avuti altri sino al vezzo da ragazzo di non portarlo più, perché mi infastidiva e per decenni ne ho fatto a meno (tranne quello per le immersioni per necessità), maturando il gusto della sfida di vivere senza con la presunzione di svegliarmi all'ora giusta, senza sveglia, per una specie di abilità acquisita. Sapendo ovviamente che laddove necessario al lavoro o nello svago l'ora spuntava da qualche parte per evitare svarioni. L'arrivo del telefonino con l'ora me lo ha fatto portare di nuovo appresso e da Natale ho anche al polso un orologio "Apple" collegato al mio "iPhone" in una versione sportiva che mi serve - anche se pure questo è un vezzo - per avere informazioni di tipo salutista, oltre che per molte altre cose. Compreso, in certe circostanze come uno "007" di serie D, di rispondere dall'orologio alle telefonate, facendomi prendere in giro da solo.

Mi accorgo ora che ho l'aggeggio multitasking di ripetere - come comportamento acquisito o chissà per quale pezzettino di DNA - quel gesto di guardare l'ora che faceva mio padre anche da molto vecchio, quando non aveva nulla da fare e negli ultimi mesi di vita sperava persino che il tempo per lui finisse una volta per tutte per una stanchezza di vivere che metteva il magone. Con il passare del tempo (ecco!) si capiscono meglio certe parole di David Grossman: «La cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è il suo tempo. Non sono le parole, non sono i fiori, i regali. E' il tempo. Perché quello non torna indietro e quello che ha dato a te è solo tuo, non importa se è stata un'ora o una vita». E sulla relatività del tempo esiste la famosa frase di Albert Einstein che dice che un'ora con una bella ragazza passa in fretta ed un minuto seduti su una stufa dura moltissimo. Io potrei dire di aver avuto il tempo rallentato, in politica, in occasione di comizi in cui mi sono ritrovato di fronte ad una platea che mi seguiva in silenzio, vedendo dove diavolo sarei finito con i miei ragionamenti. Ma è più lieve Elsa Morante: «Il tempo - che gli uomini tentano di domare con gli orologi, fino a renderlo un automa - è per se stesso di natura vaga, imprevedibile e multiforme, tale che ognuno dei suoi punti può assumere la misura dell'atomo o dell'infinito». L'infinito è un concetto che mi è sempre sfuggito, forse mi ci sono avvicinato - come pensiero o forse sentimento - assistendo a certi spettacoli nei planetari dove sono stato e che raccontavano di questi Universi senza fine o semplicemente mi ci sono avvicinato guardando il cielo stellato in una notte buia in cui affondare gli occhi e i pensieri. Viene in mente Voltaire: «L'univers m'embarrasse, et je ne puissonger - Que cette horloge existe et n'ait pas d'horloger». Virgilio, nelle "Georgiche", scriveva: «Sed fugit interea fugit irreparabile tempus» («Ma intanto fugge, irreparabilmente, fugge il tempo»). Ma non è il vorticoso girare di un cronometro a darne il senso: in quello basta e avanza la vecchia e sempre buona clessidra con la sabbia che scivola sino ad esaurirsi, ma - girandola - riparte.