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11 mar 2019

La Valle d'Aosta come Bisanzio?

di Luciano Caveri

Anche il più ottimista di questi tempi in Valle d'Aosta vacilla, chiedendosi dove diavolo si stia andando a finire, in una specie di deriva che addolora ma non stupisce più. La gestione della "cosa pubblica" è responsabilità pesante che obbliga ad avere competenze, a lavorare duro e a seguire i dossier con onestà e moralità. Si può, se tutto funziona, mettere il motore a regime e volare persino alto, ma quando certe questioni si inceppano scatta una sorta di effetto dominio depressivo e preoccupante. Ci sono questioni politiche che ho seguito in anni passato e di cui ho avuto l'onore - spesso misconosciuto per umane bassezze - di essere stato colui che ne segnò l'inizio della storia, per chi voglia scriverne senza omissioni. Lontanissimo è il passaggio dallo Stato alla Regione del Forte di Bard di cui mi occupai nel 1990, quando ero deputato. Poi seguii, da diverse posizioni istituzionali, il cammino della sua rinascita con cospicui fondi comunitari sino alla sua inaugurazione nel gennaio del 2006 e nei successivi primi anni di vita, quando la fortezza spiccò il volo.

Un pochino più vicino fu un mio emendamento alla Camera nel 1997 che diede vita, fra mille dubbi sulla sostenibilità del progetto, alla norma di legge, che ha dato origine all'Università della Valle d'Aosta, di cui sono stato presidente dieci anni dopo e seguii pure il passaggio alla Regione della caserma "Testa Fochi", che sarà sede del locale Ateneo. Perché ne parlo, oltre che per memoria? Per una semplice e tetra constatazione, che non ha nulla di nostalgico e neppure esibizionismo di chi pateticamente rimarca il "io c'ero". Ma è semmai la visione evidente di un mondo valdostano che, potendone ben individuare nomi, cognomi, indirizzi e responsabilità si sta squagliando come neve al sole. Questi due casi citati sono evidenti: problemi seri colpiscono il Forte di Bard, spingendo il presidente attuale Sergio Enrico a dimissioni nel segno della responsabilità a fronte di una politica che rinvia scelte decisive per evitare il peggio. Ciò vale anche per l'Università, in preda a polemiche frutto di lotte intestine in cui non è difficile intravvedere situazioni incancrenitesi nel tempo ed oggi siamo ad un passaggio in cui la politica entra a gamba tesa sulle dinamiche dell'autonomia universitaria. La Regione paga ed è giusto che abbia un ruolo, ma se si eccede tutto cambia. Potrei parlare di altre falle, più o meno grandi, in quella costruzione autonomistica del dopoguerra su cui vale la pena di essere onesti. Chi sulla base di reati penali, scandali vari, inefficienze e incapacità, crisi di settori interi si atteggia a nemico dell'Autonomia, quasi soddisfatto dalle diverse tragedie, dovrebbe riflettere con serietà che non è l'Autonomia ad essere sbagliata in sé ma ci sono responsabilità personali e patrimoniali che non ricadono sull'ordinamento valdostano ma su chi ne ha spesso stravolto il senso e violato la sacralità di rango costituzionale. Ci vuole il bisturi per agire sui tessuti malati e togliere ogni rischio d'infezione: ho l'impressione che il tema di una sorta di decadenza sia argomento di discussione non solo interno ma anche esterno alla Valle in ambienti dove spesso in passato si accumulavamo invidie e gelosie per un "sistema valdostano" con una marcia in più. Oggi in un clima che evoca lo splendore e la decadenza di Bisanzio assisto stavolta esterrefatto ad una sorta di generalizzata rabbia mista ad apatia, che non è purtroppo sfociata in null'altro che in vacue proteste e rare proposte. E pensare che strumenti e modalità per farne carburante verso una nuova Autonomia con radici solide nella parte funzionante e sana ci sono tutti. Basta coordinare intelligenze e buone volontà.