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04 nov 2018

Atlantide e l'Autonomia

di Luciano Caveri

Da ragazzino ero affascinato da Atlantide e leggevo quanto trovavo sul tema. Ricordate la storia? Atlantide: così si sarebbe chiamata un'Isola leggendaria, che doveva essere situata nell'Oceano Atlantico davanti allo stretto di Gibilterra. Veniva citata nell'antichità classica (Platone nel Timeo e nel Crizia) ed era descritta come un vero e proprio continente. Ad abitarla era - come da descrizione - un popolo guerriero, che aveva tentato una volta la conquista dell'Europa e dell'Asia, ma era stato ricacciato dai Greci e si era poi inabissato in mare con tutta l'isola, sprofondata nell'Oceano. Resta solo da aggiungere che scienziati di varie discipline hanno svolto diverse ipotesi su quale origine veritiera potessero avere questi fatti di una terra inghiottita dal mare per un rivolgimento naturale, tolta la coloritura leggendaria.

Ma - trovato poco di certo sugli avvenimenti possibili - per me questa storia è sempre servita, nel mio immaginario, per designare una scomparsa inopinata, qualcosa che cessa d'improvviso «come la scomparsa di Atlantide». Ci portiamo dietro fin dall'infanzia alcune costruzioni, che poi ci servono per sempre come modello per i nostri pensieri. Ci pensavo rispetto a quella costruzione, assai complessa nella sua genesi e nel suo sviluppo, che è stata ed è ancora l'Autonomia speciale della Valle d'Aosta dal 1945 sino ad oggi. Si tratta - mi è capitato tante volte di dirlo - della versione contemporanea di un desiderio atavico di autogoverno, sviluppatosi a seconda delle epoche e che deriva in tutta evidenza dalla posizione geografica e dalla compiutezza di un territorio avviluppato da alte cime. Sappiano che i primi abitatori vennero dopo la fine delle glaciazioni che coprivano le vallate e si trattava, in primis, di cacciatori-raccoglitori. Evito di farvi la tiritera successiva. Dallo sviluppo dell'agricoltura e all'addomesticamento dell'allevamento e via via nel passaggio fra le civiltà più antiche all'arrivo dei Romani e di seguito dal Medioevo ad oggi. So bene che non si piega, con determinismo, la Storia ai risultati odierni, ma va detto che questo spirito libertario e di autogoverno si è espresso in ordinamento giuridici che seguivano gli andamenti del momento. Ci sono dunque stati momenti d'oro e momenti oscuri, periodi di ricchezza e di povertà, ere di sviluppo e di recessione, stagioni di grande coesione e di terribile sfilacciamento. Oggi non so bene dove siamo, ma esiste - incombente come non mai - un rischio di un "effetto Atlantide" per l'Autonomia per due ragioni diverse. Una esogena e una endogena. Quella esogena è facilmente detta: le Regioni a Statuto speciale sono sempre più vissute dall'esterno come un ingiustificato privilegio. L'aspetto peculiare è che a questo disprezzo partecipano schieramenti politici assai diversi, uniti nella lotta a quanto viene considerato un privilegio anacronistico e naturalmente immeritato. La componente endogena è così riassumibile: l'Autonomia vive e prospera se ci crede chi la dovrebbe far fruttare e cioè i valdostani. In primis dovrebbero farlo - difendendo i diritti ed applicando i doveri - chi si occupa della gestione politica e amministrativa, avendo anche un mondo intellettuale che supporti. Certo oggi l'immagine è molto appannata e lo dico toccando piano. L'Autonomia, nelle sue basi giuridiche invecchia e basti pensare allo Statuto che è arido dal punto di vista ideale e programmatico, essendo prevalentemente un dettato fatto di poteri e competenze e di meccanismi, per altro ormai datati, che garantiscono la costruzione istituzionale. Ma rischia di invecchiare nelle sue basi ideologiche, visto che si ripetono come una litania i discorsi, del tutto nobili e condivisibili, dei padri fondatori che esprimevano una civiltà valdostana ben diversa da quella attuale. Sono il primo a dire sempre che bisogna abbeverarsi alle diverse sorgenti del pensiero autonomista, ma occorre sforzarsi per dare a questo modo di pensare e di agire solide gambe nell'attualità e nello sviluppo turbinoso in cui siamo immersi ed in cui tutto rischia di invecchiare precocemente e, o si è capaci ad intercettare e cavalcare i cambiamenti, oppure si resta nella rischiosa situazione di un atteggiamento conservatore. Come essere chiusi in un fortino, come il "Forte Bastiani" del "Deserto dei Tartari" di Dino Buzzati in attesa di un nemico che si materializzi, ma in realtà quel fortino rischia di essere, come nel caso nostro, fuori da qualunque rete di comunicazione e si spegne da solo per consunzione e per una eccessiva litigiosità o triste indifferenza fra chi si trova all'interno e non solo per quei nemici attesi è temuti di cui si sentono i tamburi di guerra.