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01 nov 2018

Pensando a Desirée

di Luciano Caveri

Ho visto le tue fotografie che pubblicavi sui social «dandoti un tono», ma sembravi null'altro che una pischella, come forse si dice a Cisterna di Latina dove abitavi. Da papà - se fossi stata mia figlia - avrei usato un banale «copriti» e non per senso del pudore, ma perché veniva da sorridere a vederti in posa come capita alle adolescenti che si atteggiano a donne fatte. Invece bisognerebbe sapere che per crescere ci sono tempi e modi. Ti chiamavi Desirée - "Desiderata" (che non ha neppure una Santa sul calendario) - e dovresti dunque essere stata attesa da qualcuno e, per questo, curata e vezzeggiata dalla nascita. Invece la tua vita non è stata granché, prima che si spegnesse anzitempo.

Con il padre naturale che non ti aveva riconosciuta e che pare gravitare in ambienti di malavita e che hai pure denunciato per stalking perché ti aveva dato qualche schiaffone quando aveva scoperto che ti drogavi. Oltretutto gravava su di te un affidamento alla nonna che dimostra difficoltà con i genitori che ti hanno cresciuta. In più soffrivi di una leggera zoppia, che ti faceva soffrire. Chissà quando hai scoperto questa maledetta droga, che ti ha fatto finire in un caseggiato occupato di Roma, in preda a bande di spacciatori africani ed arabi, che dovevano essere cacciati dall'Italia ma erano rimasti lì a delinquere, creando quel clima di incertezze su cui poi fioriscono xenofobia e razzismo, anche per chi si comporta onestamente. Sei morta a soli sedici anni dopo essere stata violentata e con un'agonia che che strazia il cuore. Eri andata lì per cercare droga pesante e loro te l'hanno data con un cocktail di sostanze che fa impressione, probabilmente in cambio del tuo corpo e pare non fosse la prima volta. Poi tutto è degenerato e la morte solitaria su di un pagliericcio è arrivata. Ora in tanti piangono - ho letto l'intervista straziata ma lunare di tua madre - che scarica il barile con le solite storie già sentite da genitori che si arrendono o peggio sono inadatti. Ho letto della nonna, che hai chiamato un'ultima volta per dire che avresti dormito a Roma da un'amica perché avevi perso il pullman. Penso non ci possa aver creduto, ma forse era rassegnazione, che ci può stare, anche per stanchezza. Non ho parole. Ma resta il fatto che ogni giorno capitano morti meno drammatiche e meno pubblicizzate, ma sempre per ragioni di droga. Sostanze vecchie - come l'eroina - o micidiali miscugli con nuove droghe sintetiche. Eppure, anche se i dati confermano come le tossicodipendenze picchino ancora durissime, rispetto al passato c'è oggi come una sordina che fa sì che certe notizie cadano nell'oblio, se non si tratta di vicende macroscopiche come quella appena abbozzata, che ha scosso l'opinione pubblica. Arianna Giunti, in una sua inchiesta su "L'Espresso", scriveva due mesi fa attorno ai pericoli per i minorenni o poco più: «In tutta Italia - secondo i dati elaborati dal Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia - i minori e i giovani adulti (dai diciotto ai venticinque anni) attualmente in carico agli uffici di servizio sociale per i minorenni sono 20.466, di cui oltre settemila nuovi arrivi solo nell'ultimo anno. Negli ultimi dodici mesi, quelli collocati nelle comunità dell'area penale - fra cui i minori che hanno commesso reati in materia di stupefacenti - sono stati 1.837, con un aumento di quasi trecento unità rispetto al 2015. Poco più di cento, invece, quelli ricoverati in apposite strutture per disintossicarsi. Quando si tratta di minorenni infatti - i magistrati sono i primi ad ammetterlo - le comunità sono solo l'estremo rimedio. Nella maggior parte dei casi i ragazzi vengono indirizzati verso i "Serd", i servizi pubblici per le dipendenze patologiche. Ed è anche qui che i numeri degli "under 18" in cura negli ultimi anni hanno avuto un'impennata, al punto che alcune Regioni si sono dovute attrezzare con dipartimenti riservati solo agli adolescenti e con la nascita di strutture private, ormai sempre più diffuse. Ma si tratta ovviamente di una panoramica sottostimata: mancano all'appello tutti i ragazzi che non sono entrati nel circuito dei tribunali e che si sono rivolti direttamente a strutture terapeutiche private. O che sono totalmente sconosciuti ai servizi sociali». Chi ha avuto il caso di familiari con problemi di droga - a me è capitato con una persona più o meno della mia età, che si rovinò vita e salute e non ne parlo al passato per caso - sa bene che si tratta di un girone dantesco da cui si esce con grande difficoltà. Ricordo a quei tempi, quando me ne occupai, di come all'epoca una delle poche speranze fosse la soluzione di finire a San Patrignano. Parlai direttamente con Vincenzo Muccioli, figura discussa per i metodi ruvidi adoperati per uscire dal tunnel, che trovò un posto per questa persona, che - accampando una scusa - non andò infine in comunità. Ricordo ancora, con orrore e preoccupazione, che cosa mi diceva allora, nel suo patimento evidente e di fronte a me incredulo e preoccupato, quando raccontava di quanto fosse disposto a tutto pur di provare quell'indicibile piacere del "buco". Ogni moral suasion e terapia finivano asfaltate dal flauto magico della dipendenza, che lo trasfigurava da Dottor Jekyll a Mister Hyde. Questo resta un problema serio, forse seppellito da mille altre notizie ed è solo la punta dell'iceberg che ogni tanto emerge, lasciando sott'acqua un mondo di famiglie disperate e con troppi tossici che giocano con la loro vita e ingrassano la criminalità organizzata.