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08 gen 2018

I diciottenni del '99

di Luciano Caveri

L'altra sera, per i soliti auguri di rito, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, evidentemente conscio del crescente astensionismo persino in ulteriore peggioramento in vista delle prossime elezioni Politiche, ha dedicato un passaggio del tradizionale messaggio dal Quirinale ai neo votanti: «Mi auguro un'ampia partecipazione al voto e che nessuno rinunzi al diritto di concorrere a decidere le sorti del nostro Paese. Ho fiducia nella partecipazione dei giovani nati nel 1999 che voteranno per la prima volta. Questo mi induce a condividere con voi una riflessione. Nell'anno che si apre ricorderemo il centenario della vittoria nella Grande guerra e la fine delle immani sofferenze provocate da quel conflitto. In questi mesi di un secolo fa i diciottenni di allora - i ragazzi del '99 - vennero mandati in guerra, nelle trincee. Molti vi morirono. Oggi i nostri diciottenni vanno al voto, protagonisti della vita democratica».

Pensa al caso: due giorni prima a Gignod, indirizzandomi, nel ricordo del loro ex sindaco Claudio Brédy, ai giovani diciottenni del paese - che hanno nell'occasione ricevuto dal Comune un attestato di maggior età - avevo ricordato come cent'anni fa di questi tempi i loro coetanei maschi vennero mandati nelle trincee della Prima Guerra mondiale. Ed ho citato, incidentalmente, il caso di aver letto poco prima un documento d'epoca, inquadrato in un angolo della sala, in cui si elencavano i morti locali in quella guerra, compreso purtroppo un ragazzo nato nel 1900 (morto nel 1921, immagino in seguito a qualche trauma riportato). Quanto non sapevo che potesse essere avvenuto, ma ho trovato poi conferme che la chiamata alla leva investì ancora una parte di giovani di quell'anno e non solo i ben noti "ragazzi del '99". Questo stesso moto rievocativo del Capo dello Stato, in verità, mi era già venuto nella primavera scorsa, quando vidi, allegri e vitali, i coscritti del 1999 di Issogne in una locale festa popolare fra frizzi e lazzi, comme d'habitude. Ricordai già allora, proprio sul blog, di come nei primi mesi del 1917, quando la guerra si stava ormai protraendo da quasi due anni con un prezzo di vite umane elevatissimo anche per l'avvento di armi e di tecnologie mai adoperate prima, espressamente per controbilanciare le numerose perdite, lo Stato Maggiore chiamò alle armi in Italia ottantamila diciottenni della classe 1899. Istruiti in modo approssimativo, prima di essere buttati nelle battaglie, vennero inizialmente inquadrati nella "Milizia territoriale". In seguito, alla fine di maggio, ne furono chiamati alle armi altri 180mila, ed altri ancora vennero intruppati nei mesi successivi. Nel novembre 1917, dopo la disastrosa dodicesima battaglia dell'Isonzo e la conseguente rotta di Caporetto, i "ragazzi del '99" vennero inviati sul fronte vero e proprio. Il loro intervento risultò fondamentale per la resistenza sulla linea del Piave, tanto che il nuovo Capo di Stato maggiore Armando Diaz così li citò in un Ordine del giorno: «I giovani soldati della Classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico e sul fiume che in questo momento sbarra al nemico le vie della Patria, in un superbo contrattacco, unito il loro ardente entusiasmo all'esperienza dei compagni più anziani, hanno trionfato. Alcuni battaglioni austriaci che avevano osato varcare il Piave sono stati annientati: 1.200 prigionieri catturati, alcuni cannoni presi dal nemico sono stati riconquistati e riportati sulle posizioni che i corpi degli artiglieri, eroicamente caduti in una disperata difesa, segnavano ancora. In quest'ora, suprema di dovere e di onore nella quale le armate con fede salda e cuore sicuro arginano sul fiume e sui monti l'ira nemica, facendo echeggiare quel grido "Viva l'Italia" che è sempre stato squillo di vittoria, io voglio che l'Esercito sappia che i nostri giovani fratelli della Classe 1899 hanno mostrato d'essere degni del retaggio di gloria che su loro discende». Questa retorica guerresca da brivido non va più alimentata da coltivatori di "parapapà di circostanza" ancora in circolazione. Si pensi semmai ai costi umani e sociali della guerra ed alle gravi responsabilità dimostrate dalla Storia da parte di tanti Generali italiani inetti, che manovrarono soldati in carne ed ossa, come se fossero stati null'altro che dei soldatini di piombo manovrati con una funebre capricciosità. Nel 1918 quei giovani combattenti furono infine fra i protagonisti della rivincita con le due battaglie del Piave (giugno) e di Vittorio Veneto (fine ottobre). Per cui c'è da sperare che, oltre al giusto parallelo fra i giovani di un secolo fa e quelli di oggi che evoca il tempo trascorso e le molte diversità, si possano dare ai diciottenni di oggi almeno due elementi su cui riflettere. Il primo è che il processo d'integrazione europea ha evitato ai giovani di oggi certe terribili guerre combattute sul Vecchio Continente, ma spinte diverse da quelle di una comunione d'intenti si stanno riaffermando. La seconda è la consapevolezza della crudezza dei drammi della Prima Guerra mondiale, come chiave per evitare esercizi retorici e per segnalare l'importanza della Pace. Nel nostro piccolo - su circa ottantamila abitanti della Valle d'Aosta dell'epoca - furono ben 8.500 i valdostani che partirono per il fronte della Grande Guerra. Di questi - segno di una tragedia - 3.500 furono feriti o si ammalarono, con un numero imprecisato di invalidi di guerra, 850 furono fatti prigionieri e 1.557 morirono o risultarono ufficialmente dispersi. La memoria va coltivata.