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16 ago 2016

Storie di disabilità

di Luciano Caveri

Il "politicamente corretto" (orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone) è sempre qualcosa di difficile da interpretare. L'altra sera la scrittrice Valeria Montaldi - di cui ho detto ieri - rispondendo ad un insistente interlocutore fra il pubblico durante la presentazione del suo libro, che chiedeva chi fossero da considerarsi - con riferimento a quelle bruciate al tempo dell'Inquisizione - le "streghe" di oggi, ha dato una risposta piena di verità: e cioè che rispetto a tanti fenomeni delicati, in troppi hanno oggi una facciata buonista, ma poi dietro l’apparenza covano cattivi pensieri per nulla coerenti con l'immagine esterna che vogliono dare di sé. Siamo tutti, in determinate circostanze, dei Dottor Jekyll e dei Mister Hyde.

Ci pensavo rispetto alla disabilità, che - da dizionario con equilibrismo proprio da "politically correct" - si tratta della "limitazione di compiere un'attività in modo considerato "normale", all'origine di un handicap". Quest'ultimo termine, che oggi viene abbastanza aborrito, ha però radici mediche e significa "incapacità di provvedere da sé, interamente o parzialmente, alle normali necessità della vita individuale e sociale, determinata da una deficienza, congenita o acquisita, fisica o psichica, e da una conseguente incapacità a livello della persona, che comporta conseguenze individuali, familiari e sociali". Qualche giorno fa sono stato testimone di due episodi. Il primo a Chamois: si trattava di una manifestazioni di ragazzi disabili di vario genere e gravità, partecipi - con i loro genitori e con i loro accompagnatori - di un vero e proprio spettacolo. Si trattava di qualcosa che colpiva al cuore: mi veniva in mente quella bella parola latina, la pietas, che descrive un atteggiamento di doveroso rispetto, una partecipazione assieme emotiva e razionale. Ebbene, dietro a questo primo sentimento c'era un diavoletto che diceva altro e cioè si chiedeva, ad esempio, se per persone in stato di gravità elevata questa logica di spettacolarizzazione su di un palco fosse alla fine un bene o un male. Un cattivo pensiero archiviato pensando che, se non per loro, per chi vive con loro la quotidianità anche una cosa di questo genere fosse un momento gioioso rispetto alle difficoltà della routine. Poi sono stato a Cogne e in un lato del prato di Sant'Orso un folto gruppo di persone sulla sedie a rotelle giocavano a "rubabandiera" con la carrozzina spinta da amici e parenti. Anche qui, di fronte ad una scena che colpiva, potevano esserci due sentimenti diversi: il primo di considerazione verso questa normalità del giocare assieme all'aria aperta e dall'altra, invece, il tarlo di chiedersi se certe comunità che mettono assieme persone disabili non finiscano per essere una sorta di ghetto. Ma, proprio mentre lo pensi, ti senti ingiusto verso chi, invece, organizza cose di questo genere. Vengono in mente le Olimpiadi in corso a Rio e le successive Paraolimpiadi, che sono piene di storie belle e avvincenti di come il coraggio si sposi con l'agonismo, spostando sempre più in là i propri limiti in una gara non solo con gli altri ma anche con sé stessi e le proprie difficoltà. Come non evocare, nella sua complessità, il caso drammatico e che illumina una parte di cui è difficile parlare. Mi riferisco alla belga Marieke Vervoort, atleta di punta della nazionale paralimpica di atletica in carrozzina, un oro e un argento a Londra nei 100 e 200 metri nella categoria. La velocista 37enne, dal 2000 in carrozzina a causa di una malattia degenerativa progressiva, sa bene che quella brasiliana sarà la sua ultima Paralimpiade, e non per suo volere: «Essere a Rio è il mio ultimo desiderio. Per me non è stato facile allenarmi perché devo combattere giorno e notte contro la malattia». Ed ha evocato una possibile scelta, dopo il Brasile, vale a dire avvalersi di quella legge belga molto estesa sull'eutanasia del 2002, motivata con un racconto della sua condizione attuale che colpisce e addolora e rende ancora più incredibile la sua carriera sportiva. Si tratta ovviamente di uno sconvolgente caso di coscienza, che non deve distoglierci dalla forza di chi, invece, mantiene coraggiosamente la scena. Penso all'alpinista scozzese senza mani e senza piedi che, con apposite protesi (gli manca anche un pezzo delle gambe), ha giorni fa scalato la vetta del Cervino. Jamie Andrew aveva perso quelle parti del suo corpo a causa del gelo che quindici anni fa lo aveva colto assieme al suo compagno di cordata (morto per ipotermia) sul Monte Bianco. Essere in cima alla "Gran Becca", dopo aver fallito la salita inversa nel 2014, è stata per lui una riconquista ed anche un esempio straordinario di come - lo dice in alcuni filmati su "YouTube" con parti impressionanti, perché riportano le drammatiche fasi successive al soccorso sul Bianco - per proseguire nella vita bisogna sempre fissarsi degli scopi.