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24 mag 2016

L'astensionismo che si mangia la democrazia

di Luciano Caveri

Tocca oggi ripartire da dove ci siamo fermati ieri. Ma con una premessa: non è un fatto isolato il distacco dalla politica di cui riparlerò e sul quale spesso astrologo nella speranza che si trovino delle soluzioni, che per altro se non saranno canalizzate arriveranno da sole, come per tutte le cose umane. Nel senso che - lo dimostra il calo generalizzato il tutte le forme associazionistiche e di volontariato - esiste una chiara scelta di chiusura nel proprio privato e tutto ciò che sa di impegno civico finisce - dunque non solo per la politica - per essere rigettato. Una sorta di astensionismo dalla vita collettiva e pubblica.

Ha scritto ieri un giornalista del "Corriere della Sera", Marco Cianca, partendo da un certo punto di vista: "Susanna Camusso lo dice con tristezza: «Nelle migliaia di assemblee che abbiamo fatto per presentare la nostra carta dei diritti, i lavoratori non hanno voluto sentir parlare di politica. I partiti non ci riconoscono, accusano, e noi non li riconosciamo, non ci meritano. Non c'è di sicuro corsa al voto, semmai c'è la corsa a non votare». Il segretario generale della "Cgil", nel presentare il libro di Bruno Ugolini sul "jobs act" ("Vite ballerine", Ediesse) dà voce a quel doloroso distacco che gonfia da sinistra il popolo dell'astensionismo". Prosegue l'articolo: "Un fenomeno emerso con evidenza alle regionali del 2014: in Emilia Romagna l'affluenza alle urne crollò al 38 per cento. Lo si sapeva, era nell'aria, i dirigenti locali del sindacato avevano lanciato l'allarme, inascoltati. Ora la campana della disaffezione suona di nuovo. Che succederà il 5 giugno, alle amministrative, ed il 16 ottobre, al referendum sulla riforma costituzionale? Quando i partiti si delegittimano a vicenda e anche al proprio interno, quando tutto finisce in rissa, quando la chiamata al voto assume i connotati di un'ordalia, se non si ha più alcuna fede negli dei della politica, è difficile che si scenda nell'arena". I dati, di cui ho spesso parlato qui, emergono nell'articolo nella loro crudezza: "L'astensione è crescente, continua, apparentemente inarrestabile. Il grafico sui votanti dal 1946 al 2013, elaborato dall'Istituto Cattaneo, appare come la curva in picchiata di un crack senza rimedio. In Italia, per la verità, la partecipazione resta ancora una delle più alte ma l'erosione sembra procedere in progressione geometrica. E non può più essere esorcizzata come un'espressione di qualunquismo, riconducibile per lo più all'area di centro-destra. Due studiosi come Pasquale Colloca e Dario Tuorto parlano di «smobilitazione punitiva», che per quanto riguarda l'elettorato di centro-sinistra, compare per la prima volta nelle elezioni del 2008, dopo la caduta del secondo governo Prodi. E' come se da allora il lutto dell'Ulivo non fosse stato elaborato e si fosse poi intrecciato con l'anti-renzismo, prolungamento, nell'immaginario degli orfani di quell'esperienza, dell'anti-craxismo e dell'anti-berlusconismo. Ha scritto Ilvo Diamanti: «Oggi l'astensione è il voto di chi non vota. E prima votava a sinistra»". Se guardiamo ai dati della Valle d'Aosta possiamo serenamente dire che - lo si vede da singoli Comuni - nel caso valdostano anche una forte parte dell'elettorato di area autonomista ha lasciato le urne. Ma osserva ancora Cianca: "Ma il distacco è in realtà senza confini politici, invade tutte le aree sociali. Apatici, rancorosi, indifferenti, indignati, disgustati, delusi, cinici, nichilisti, nostalgici, paurosi, apocalittici, idealisti, disperati, attendisti, insofferenti. L'astensione ha mille volti, è un moto dell'animo. Non esiste, non può esistere, un partito dell'astensione. Troppo diverse le motivazioni, le idee, le culture, gli obiettivi. Ma il filo comune del rifiuto dell'attuale politica rischia di trasformarsi in un cappio che strangola le libere elezioni". Vale fra tutti - da quel che vedo - una crescente incomprensione sui comportamenti dei politici, specie i lunari balletti delle alleanze. Ma più in generale si legge nell'articolo: "La destra che si era adunata sotto le bandiere di Silvio Berlusconi ora è divisa e litigiosa come nel campo di Agramante, il centro ricorda quel personaggio di "Carosello" che gonfiando il petto diceva «So' Caio Gregorio, il guardiano del pretorio», la sinistra non è di sinistra, la sinistra-sinistra sembra Chingachgook, l'ultimo dei mohicani. E il movimento di Beppe Grillo, la grande novità dell'antipolitica, appare in fase opaca e involutiva, scontando l'ammonimento di Pietro Nenni: «Quando fai il puro trovi sempre uno più puro che ti epura». La scena complessiva è tragicomica, un misto tra Robespierre, «la virtù produce la felicità come il sole produce la luce», e Totò, «ma mi faccia il piacere!». Lo spettacolo, una perenne campagna elettorale, non strappa certo l'applauso ma neanche il voto. Che le urne restino aperte un solo giorno o magari per una settimana, alla fine non cambia molto. La questione non è solo di casa nostra. In tutte le democrazie la corruzione, il discredito, la sfiducia nei partiti vissuti come sopraffattori e non come portatori di soluzioni alimentano il distacco dalle istituzioni. Un male che mina anche le fondamenta dell'Unione Europea. Lo scrittore belga David Van Reybrouck, convinto che la crisi possa diventare irreversibile, è arrivato a proporre il ritorno al sorteggio per le cariche politiche, come nell'Atene del Quinto Secolo ("Contro le elezioni: perché votare non è più democratico", Feltrinelli editore)". Proprio, guarda caso, il libro di cui parlavo ieri. Così si conclude l'articolo: "Soluzioni bizzarre, che danno però il senso di un allarme diffuso, generale. Adriano Olivetti, imprenditore illuminato e utopista, già nel 1949, teorizzando le Comunità, metteva in guardia dalla crisi del parlamentarismo: «Il mandato politico, nella sua vera essenza, è soltanto un atto di fiducia degli uomini in un altro uomo». Quando la fiducia non c'è, la democrazia muore". In una piccola comunità come quella valdostana, posti di fronte a sfide decisive per il futuro dell'attuale ordinamento autonomistico e sapendo che scelte future non possono essere frutto di una minoranza di valdostani attenta ma non rappresentativa di una maggioranza di cittadini distratta o atarassica, sarà bene cercare soluzioni originali, senza aspettare che il quadro complessivo - italiano e europeo in cui giaciamo - batta un colpo.