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11 apr 2016

Contro certa retorica sull'integrazione

di Luciano Caveri

Se la retorica servisse da sola a risolvere le questioni di convivenza di culture diverse fra loro, allora saremmo a cavallo con certi atteggiamenti che noto in qualche parte della scuola valdostana. Se bastassero cartelli e cartelloni buonisti che inneggiano all'Amore, marce della pace con i bambini in fila come i "balilla" per "manifestare", lezioni di tamburi o cucina etnica per far vedere altri Continenti in pillole, i nostri bambini crescerebbero - così instradati - buoni e programmati per capire ogni diversità terraquea. Troppo facile se dietro ci sono convinzioni personali e scelte ideologiche pur condivisibili, ma nel vuoto di una strategia frutto di chi certe questioni le ha studiate e sa come affrontarle. Il "fai da te" pedagogico genera mostri. Basta leggere cosa hanno scritto fior di sociologi sulle banlieu francesi terreno di coltura per islamisti e pure il Belgio ha dimostrato la totale incapacità di dare un senso ad un modus vivendi con diritti e doveri così chiari da non permettere sbandamenti di massa di giovani musulmani.

Ho sempre seguito con viva curiosità i progetti di multiculturalità e sono un grande sostenitore dell'integrazione, nel rispetto della propria identità. Esercizio difficile ma non impossibile e per altro indispensabile se non si vogliono comunità contrapposte e conflittualità, frutto di quegli spostamenti epocali di migranti che oggi avvengono e non è non una novità nella storia dell'umanità. Semmai quel che oggi scuote è che mentre un tempo le diversità venivano pian piano abbattute e la sintesi nuova finiva per affermarsi, proprio perché esistevano omogeneità di partenza, oggi c'è chi - arrivando da noi - non intende rinunciare a nulla e anzi mira in certi casi ad imporre i suoi valori e le sue idee senza compromessi e senza quell'arricchimento reciproco che rende utile l'incontro con "l'altro". Ma la condizione nell'incrocio fra noi e gli altri è che questa identità diversa non nasconda visioni anacronistiche della società che ci facciamo tornare indietro rispetto ad acquisizioni affermatesi nel tempo. Per capirci: ci sono capisaldi della civile convivenza, fatti non solo dal corpus giuridico, ma usi, costumi e tradizioni, che non sono una robetta di cui disfarsi per far piacere a chi arriva. Chi considera giusto uno Stato teocratico, l'infibulazione una rispettabile tradizione, i cristiani carne da macello e ovviamente indegno di accoglienza, perché non si capisce quale esercizio di masochismo possa permetterlo. E non esiste "diritto di asilo" che giustifichi che si accettino persone o gruppi familiari che a questo si uniformino. Ma esiste anche un livello inferiore: chi considera la donna un essere di "serie B", chi ritiene che i propri figli non debbano giocare con i nostri, chi chiede che manifestazioni della nostra cultura (Natale, Pasqua, i Santi Patroni) siano segni di divisione e via di questo passo dovrebbero - come dobbiamo fare noi in cambio - fare uno sforzo di reciproca comprensione. Io non discuto il diritto alla preghiera negli orari canonici, l'attenzione ai "cibi proibiti" nelle mense, il rispetto nel linguaggio per non offendere mai e altro ancora. Tutto ruota attorno a regole condivise e al principio della reciprocità, altrimenti non ci si capisce e gli estremismi degli uni e degli altri trionferanno e la violenza avrà buon gioco a sostituirsi al Diritto.