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11 dic 2015

Lavazza se ne va fra indignazione e rimpianti

di Luciano Caveri

La crisi industriale morde in Valle d'Aosta e non accenna a fermarsi con un impoverimento dell'economia locale e lo svuotamento occupazionale in un settore cruciale. E sarà bene anche vigilare su certi accordi recenti, valutando la solidità patrimoniale delle aziende prescelte e bisogna che i conti tornino nel "do ut des" fra posti di lavoro e finanziamenti pubblici. Ho partecipato ieri sera fra il pubblico al Consiglio comunale di Verrès, il mio paese di origine, dove - vicenda non nuova nella storia industriale del paese - si discuteva della chiusura repentina di uno stabilimento, in questo caso della "Lavazza", azienda del grande gruppo nel settore del caffè, funzionante da oltre venticinque anni.

A conti fatti, questa vicenda interessa una sessantina di dipendenti: alcuni potranno andare in prepensionamento, altri sceglieranno di essere ricollocati fuori Valle, poi c'è lo strumento della cassa integrazione. Uno scenario cupo e un dolore palpabile per i lavoratori presenti e per i loro familiari ed uno choc in un paese che si trova con l'ennesima ferita aperta ed il senso di un declino, foto della Valle d'Aosta di oggi. Qualcosa avrei potuto dire, ma mi sembrava che il clima, improntato alla preoccupazione e a qualche flebile speranza, non fosse quello adatto per dire poche cose che potevano suonare, nel contesto, come una sterile polemica. Ma scriverle è pure liberatorio. Quando venne fatto l'accordo per spostare lo stabilimento attuale con un costo stimato di 45 milioni (a carico di "Lavazza") e con il triplo di lavoratori impiegati non fu per un caso frutto di chissà quale disegno astrale. Era una conseguenza di un giro che da presidente della Regione avevo fatto nelle imprese valdostane. Dalla visita a questa fabbrica di caffè emerse che lo stabilimento verrezziese era piccolo e collocato in una posizione troppo vicina al centro del paese, dove tra l'altro c'era chi si lamentava per l'odore della torrefazione ed agitava persino pericoli inesistenti di malattie per i bambini delle vicine scuole. Oltretutto la fabbrica non era di proprietà di "Lavazza", ma della Regione e l'azienda voleva avere un fabbricato di proprietà. Capii che anche il mercato del caffè era in piena evoluzione: quelle che oggi chiamiamo "capsule" apparivano già come una prospettiva nuova, connessa al moltiplicarsi delle macchinette elettriche da casa, come poi avvenuto. Per questo "Lavazza" voleva avere nuove linee produttive. Nell'aprile del 2008 stipulai, conscio di questo insieme di problematiche coincidenti, il famoso protocollo con il dettaglio dei reciproci accordi con "Lavazza", mettendo assieme le rispettive necessità. Toccherà al Consiglio Valle definire chi non fece che cosa dopo le elezioni regionali della primavera 2008 e se tutte le colpe siano dell'azienda, che certo si è comportata nell'annuncio della chiusura con protervia e rozzezza. Resta chiaro, come ebbi modo di dire più volte a chi in Regione venne dopo di me, che il nuovo stabilimento era un bene per l'economia, ma anche un'assicurazione sulla vita per garantire la presenza del gruppo piemontese. Per cui certi stupori odierni stupiscono in bocca ad autorità politiche che potevano, leggendo i giornali, vedere le difficoltà dello stabilimento "Lavazza" di Settimo Torinese ed anche verificare che lo sviluppo del progetto capsule - in barba alla crisi economica che si è detta venisse accampata come causa dello stop all'operazione in Valle - era stato spostato da qualche anno, con un colossale investimento economico, su Gattinara e dunque non era più fattibile su Verrès, dove la fabbrica era di conseguenza fragilizzata. Insomma che il vento non fosse favorevole era purtroppo del tutto avvertibile e bisogna mestamente ricordarlo non per turbare il clima giusto di solidarietà verso i lavoratori - ci mancherebbe altro! - ma perché non va bene neppure ripetere ossessivamente che «la politica non c'entra». Non vorrei che questo appello suonasse come un «faire semblant de rien», confortevole per chi avrebbe dovuto tenere gli occhi aperti per dovere istituzionale e non lo ha fatto. Fa anche sorridere a denti stretti il fatto che qualcuno abbia detto che i rinvii ed i silenzi di questi ultimi anni di "Lavazza" avrebbe fatto perdere all'area industriale ex "Balzano" chissà quali occasioni di reindustrializzazione, quando le aree ex "Cogne" ad Aosta, ex "Illsa Viola" di Pont-Saint-Martin e ex "Tecdis" di Châtillon aspettano industrie vere e proprie da tempo e code di richiedenti per occupare le aree non si sono visti. Ma ora tocca, per il bene della comunità e della coesione sociale, oltreché della solidarietà umana, affrontare - questo sì congiuntamente - il bubbone di crisi apertosi con l'addio della "Lavazza".