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16 nov 2015

Olio e prosciutto

di Luciano Caveri

Leggo da "La Stampa" e soffro: "Olio venduto come "extravergine" che in realtà non lo era. Si trattava di semplice olio d'oliva, meno pregiato e soprattutto meno costoso. Lo ha scoperto la procura di Torino dopo aver fatto analizzare dei campioni di bottiglie prelevate nei supermercati dai carabinieri del "Nas" dal laboratorio dell'Agenzie delle dogane e dei monopoli. L'indagine è partita dopo la segnalazione di una testata giornalistica specializzata". Spiego ora il perché della sofferenza, dovuta ad un legame familiare con l'olio "buono", nella certezza che, nel passaggio fra generazioni, qualche parcellina del "dna" riporti quanto imparato nel loro gusto dai nostri avi.

Il nonno materno, Emilio, lasciato l'Esercito, divenne commerciante d'olio, di cui veniva vantata in famiglia la grande perizia nel distinguere con palato e odorato la qualità delle miscele d'olio, riconoscendo quelle di particolare pregio. Partendo da Castelvecchio d'Imperia, viaggiava attraverso tutto il Piemonte per cercare clienti e poi carri trainati dai cavalli facevano i giri per consegnare le damigiane dell'"Olio Timo" dal cognome del nonno. Non ho alcun ricordo diretto di questa attività e purtroppo nessuna documentazione, se non il ricordo di quella casa dove andavo in vacanza d'estate, poi improvvidamente venduta delle tre figlie (chiamate coraggiosamente - per misteriose ragioni - con gli eccentrici nomi di Floriana, Agostina e Brunilde), che aveva al piano terra dei magazzini dove veniva stipata la merce prima della partenza. Ricordo bene quella casa, specialmente per le immagini indelebili dei terremoti (l'Imperiese è zona sismica, come si vede bene dal villaggio fantasma di Bussana Vecchia), con tutto che girava attorno per le scosse e la corsa mozzafiato in giardino e la voce rassicurante del nonno che ricordava che la sua casa era stata la prima in paese ad essere costruita con il cemento armato e dunque rischi reali non ce n'erano. L'attività di vendita cessò ben prima della mia nascita per ragioni anagrafiche. Certo il nonno, che ancora di recente ho rivisto, ormai molto anziano, in alcuni filmini di famiglia con me bambino, era cresciuto in mezzo agli ulivi nella frazione montana di Ginestro di Testico, piccolo Comune agricolo in Provincia di Savona, noto per il passo sovrastante (677 metri), gita abituale per i cicloamatori della zona. Penso di essere stato nel paesino una volta sola da bambino e so, da racconti familiari, che eravamo proprietari di qualche uliveto, che sarà stato nel tempo certamente usucapito. Ricordo benissimo, invece, come una sorta di coda di quel lavoro quando da bambino si andava a comprare l'olio dalla ditta "Bresciano" di Oneglia (che penso sia sparita perché nel ne trovo più notizia), che era il grossista da cui il nonno comprava il prodotto per poi rivenderlo a sua volta. Evoco quei grossi magazzini, non molto distanti dalla ferrovia che veniva raggiunta dai vagoni del vicino pastificio "Agnesi", dove compravamo piccoli fusti di ferro e mi torna alla memoria il vociare nel musicale dialetto del Ponente ligure in quegli enormi stanzoni di mattoni odoranti d'olio. Passammo successivamente all'olio "Carli", quello venduto solo per corrispondenza: la famiglia di imprenditori coraggiosi, che ha ancora in mano l'attività, mentre altre aziende oliarie sono purtroppo passate di mano e spesso finite nel portafoglio di multinazionali, erano vicini d'ombrellone - ciò cementa amicizie decennali in spiaggia - della mia famiglia. Trovo terribili certe frodi alimentari, come quella di cui parlavo all’inizio, perché minano in profondità una delle grandi eccellenze che ogni singola Regione in Italia può mettere in campo. Leggevo, sempre in questi giorni, che a Lyon è stato aperto il primo negozio di charcuterie del "Gruppo Aoste", oggi proprietà messicana dopo essere stata cinese. Il nome viene dal paese da duemila abitanti dell'Isère, omonimo del Capoluogo valdostano, originato dal nome latino Vicus Augustus. E' luogo di produzione di quel "Jambon Aoste", che gran parte del mondo francofono ritiene un prodotto valdostano e questo ha sempre accresciuto il valore commerciale di quel prodotto francese di bassa gamma, specie rispetto al prodotto "Jambon de Bosses dop". Dopo l'intervento dell'Europa, il label francese non è stato più "Jambon d'Aoste", ma proprio per evitare equivoci, con l'obbligo di togliere la "d" apostrofata, si e trasformato nel nuovo marchio "Jambon Aoste", nella logica di attenuare il rischio di una localizzazione errata, ma commercialmente più allettante. Tuttavia, va rilevato come - ora che vengono aperte queste boutiques - l'ambiguità commerciale resti in tutto e per tutto e sia un esempio illuminante di come si possa giocare sulla buona fede dei consumatori.