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05 set 2015

La filosofia del picnic

di Luciano Caveri

Oggi si trovano nei negozi o nella vasta offerta nella smisurata "pampa" digitale di Internet degli articoli un tempo rari o di nicchia. Ricordo da bambino lo stupore per un negozio storico sotto i portici di Oneglia della famiglia Novarini, dove si trovava - in un ambiente ovattato e con un mobilio degno di un negozio al centro di Londra e con il proprietario (il Signor Gaetano, morto a 92 anni lo scorso anno) e i suoi commessi tutti in stile gentleman - il meglio di vestiti e oggettistica british nella definizione più vasta del termine. Penso alle scarpe classiche, ai tessuti e alle calze scozzesi, ai pullover in cachemire, alle giacche in tweed e via di questo passo. Solo che, al posto di parlare inglese, l'accento che si sentiva era quello musicale degli imperiesi in un'enclave anglosassone.

Ne parlo perché lì venne acquistato e poi venne usato in famiglia per tanti anni un cesto in paglia da picnic - tipo valigia - in puro stile "déjeuner sur l'herbe", che mi piaceva moltissimo per il suo contenuto fatto di stoviglie opportunamente stipate e per l'uso che se ne faceva nella bella stagione come contenitore di leccornie. Si partiva in macchina, scegliendo una destinazione montana e si finiva in un prato o in un bosco, stendendo il plaid d'ordinanza e dal cesto - senza esibizioni di forza come oggi avviene con i barbecue - si cavavano cibi considerati da picnic, tipo paninetti già fatti, salumi e formaggi vari, frittate, torte salate e l'immancabile uovo sodo, oltre a frutta e dolci. Anche oggi se mi capita - ma senza il cesto, che è un oggetto cult che da tempo voglio comperare - un picnic lo faccio volentieri, perché è una di quelle attività che, più di molte altro, mi dà un senso di svago e come io me li ricordo suppongo che certi momenti se li ricorderanno anche i miei figli. Scaviamo un po' in questo termine "picnic", che per la sua sonorità evocativa non è per nulla sostituibile dal termine "scampagnata". La parole viene dall'inglese ma, malgrado certo snobismo oltremanica, il vocabolo inglese viene dal francese "piquenique", composto di "piquer - rubacchiare", di origine espressiva e "nique - cosa di nessun valore", di origine anch'esso espressiva. In francese il termine aveva due significati, il primo in disuso equivale a "fare alla romana" e cioè "repas pour lequel chacun paie sa part ou apporte son plat". Eccola una frase da un libro di George Sand: «Éverard venait me chercher à six heures pour dîner dans un petit restaurant tranquille avec nos habitués, en pique-nique». Poi esiste il significato più noto: «Repas champêtre, généralement pris sur l'herbe et en commun». A metà Ottocento Stendhal: «Il faisait chaud, cet été-là, et les plaisirs champêtres étaient à la mode (...) souvent (...) on faisait des pique-niques à Maisons, à Meudon, à Bissy». E' di qualche anno dopo quel "Déjeuner sur l'herbe", uno dei capolavori dovuti all'impressionismo, dipinto da Edouard Manet con un picnic con tanto di cesto con due gentiluomini in abiti borghesi ed una giovane donna completamente nuda, che fece scalpore, per quanto l'immagine sia piena di riferimenti classici. E' uno dei miei quadri preferiti nel solco del... picnic, che per altro svela un secondo volto del picnic. Infatti ad una certa età - diciamo fin da ragazzi (nel mio caso coincide con il primo motorino) - il picnic si trasfigura e da classica occasione familiare si trasforma in esempio di autonomia giovanile. Ricordo straordinari picnic sulle montagne valdostane o nello stupefacente entroterra ligure con codazzi di moto e di auto per una versione liberatoria e rock (anche con l'uso, proprio per la musica en plein air, dei giganteschi stereo portatili da rave party ante litteram) degli ormai barbosi picnic dei propri genitori.