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16 ago 2015

Kos, migranti e un dramma italiano

di Luciano Caveri

Se si dovesse scegliere un simbolo europeo della tragica estate dei migranti che cercano una nuova vita nel Vecchio Continente, spiccano gli avvenimenti drammatici dell'isola greca di Kos. Situata a meno di una decina di chilometri dalle coste della Turchia, l'isola risulta più facilmente raggiungibile rispetto alle lunghe distanze che separano il nord Africa dalle coste italiane. Così, dopo Lampedusa lo scorso anno, l'isola di Kos - grande una ventina di volte di più dell'isola italiana - ha riempito le cronache per l'assalto dei migranti in piena stagione turistica all'arcipelago del Dodecaneso, oltretutto in un'estate in cui i destini politici e economici della Grecia sono stati al centro dell'attenzione e hanno fatto riflettere sull'Unione Europea e fatto ballare le Borse.

Chissà quanti sanno che questa zona dell'Egeo ha avuto stretti legami con l'Italia, legati alle sue ambizioni coloniali di inizio Novecento, ma già i Romani e Venezia avevano marcato la loro presenza in queste zone del Mediterraneo. Rispetto alla storia contemporanea, una sintesi efficace la prendo dalla "Treccani": "Dodecaneso (greco: Δωδεκάνησος) Arcipelago della Grecia (2.714 chilometri quadrati con 194.332 abitanti nel 2007), formato da numerose isole e isolotti, tra cui Rodi (il capoluogo) e altre dodici isole maggiori. Le principali risorse sono l'agricoltura (olivo, vite, frutta), l'allevamento ovino, la pesca (spugne) e il turismo Il nome Dodecaneso dal 1909 designò dodici isole dell'Egeo (Calchi, Calimno, Caso, Castelrosso, Lero, Icaria, Nisiro, Patmo, Scarpanto, Simi, Stampalia, Telo) che godevano di autonomia amministrativa nell'ambito dell'Impero ottomano. Dal 1912 costituirono (tranne Icaria, e in più Rodi, Lisso e Coo) un possedimento italiano, dal 1930 al 1947 denominato "Isole italiane dell'Egeo". Furono occupate dalle truppe italiane nel 1912, durante la guerra italo-turca, e la sovranità italiana fu riconosciuta da Francia, Inghilterra e Russa in cambio dell'intervento italiano nel conflitto contro gli imperi centrali ("Patto di Londra" 1915). Finita la Prima Guerra mondiale, il "Trattato di Losanna" (1923) confermò quanto stabilito nel 1915. Occupate dalle forze tedesche dopo l'8 settembre 1943 e successivamente (1944) dagli Inglesi, le isole furono assegnate alla Grecia". Purtroppo Coos, così si chiamò l'isola durante l'occupazione italiana, fu teatro di tristi vicende dopo l'8 settembre del 1943. Così racconta la vicenda, inquadrandola storicamente, Isabella Insolvibile su storiaefuturo.eu: "Le isole occupano una posizione strategica sulle rotte del Mediterraneo orientale: sono infatti a un passo dalle coste turche, sbarrano l'accesso al Mar Nero, e si trovano a metà strada tra Egitto e Grecia sulla rotta da Alessandria ad Atene, e tra Egitto e Turchia su quella Porto Said - Istanbul. L'occupazione italiana del Possedimento - che dipendeva dal Ministero degli Esteri ed era autonomo amministrativamente e finanziariamente - vide l'avvicendarsi di numerosi governatori militari e civili. La fase migliore coincise con il governatorato di Mario Lago, che rispettò, per quanto possibile, le autonomie delle varie comunità presenti nelle isole (greco ortodossa, turca musulmana, italiana cattolica ed ebraica, quest'ultima presente solo a Rodi e Kos) e che coincise con un "un significativo sviluppo economico ed un'elevata occupazione" (Doumanis 2003, 57). La fase peggiore si aprì invece con l'inizio, nel 1936, del governatorato del triumviro Cesare Maria De Vecchi - che impose la totale "italianizzazione", e quindi "fascistizzazione" del Possedimento - e proseguì con lo scoppio della guerra, l'armistizio italo-alleato del settembre 1943, la brutale occupazione tedesca. Durante il governatorato De Vecchi le leggi razziali italiane vennero estese al Dodecaneso, le autonomie limitate o abolite, l'italiano resa lingua obbligatoria in pubblico, mentre parlare in greco divenne un reato. Il Possedimento fu militarizzato ed affidato a governatori militari - il generale Ettore Bastico prima, l'ammiraglio Inigo Campioni poi - quando, nel 1940, l'Italia prese parte al conflitto, una guerra che avrebbe solo "sfiorato" il Dodecaneso fino al settembre del 1943. Le truppe italiane stanziate nell'isola di Kos all'8 settembre 1943 ammontavano a circa quattromila uomini appartenenti al decimo reggimento di fanteria della divisione "Regina", e comandati dal colonnello Felice Leggio. Il reparto dipendeva dal comando di Rodi, l'isola capoluogo, ed era affiancato da un gruppo misto di artiglieria, piccoli reparti di Marina, Aeronautica, Carabinieri, Finanzieri e camicie nere. Fino all'armistizio le truppe del Dodecaneso dipendevano, gerarchicamente, dal "Gruppo Armate Est"; il 9 settembre furono poste sotto il controllo del Comando Supremo (Schreiber 1992, 180-181). L'addestramento, il morale e il livello di reattività delle truppe erano fortemente influenzati, oltre che dalle note e comuni condizioni delle Forze armate italiane nel secondo conflitto mondiale, dall'isolamento geografico e dallo scarso interesse dimostrato, fino ad allora, per quel settore, dalle potenze belligeranti. L'isolamento fisico si era velocemente trasformato in "isolamento psicologico" (Iuso 2008, 106), una condizione che fu notevolmente aggravata dagli eventi dell'estate: lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la caduta del fascismo provocarono infatti uno "sbandamento generale" che divenne "shock" la sera dell'8 settembre, quando sull'isola giunse la notizia dell'armistizio. I pochi tedeschi, presenti a Kos da poco tempo e in servizio presso le piste di atterraggio situate nella località di Antimachia, furono disarmati, e nella notte tra l'8 e il 9 settembre sull'isola furono lanciati volantini alleati che invitavano alla resistenza contro le truppe germaniche. La notte successiva giunse a Kos la missione "Arabic", organizzata dallo "Special operation executive", con il compito di prendere contatti con il comando italiano e far accettare di buon grado a quest'ultimo uno sbarco alleato sull'isola". Così prosegue la ricostruzione della Insolvibile: "In quelle stesse ore avevano luogo i brevi combattimenti tra gli italiani di Rodi, circa 35mila, ed i tedeschi, circa settemila. L'11 settembre l'ammiraglio Campioni avrebbe dichiarato la resa dell'isola capoluogo, ordinando tuttavia ai comandi dipendenti, tra i quali quello di Kos, di "ostacolare sbarco tedesco, permettere sbarco inglese". Campioni sarebbe stato deportato in Polonia e poi, su richiesta della "Rsi", trasferito a Parma e fucilato, insieme al comandante di Lero, l'ammiraglio Luigi Mascherpa. L'11 settembre Kos fu bombardata dalla "Luftwaffe" per la prima volta. In serata il generale Soldarelli, comandante della divisione "Cuneo", stanziata a Samo, e neo-comandante, dopo la resa di Campioni, del settore egeo, ordinò a Kos e alle altre isole la "resistenza qualunque costo at eventuali attacchi tedeschi […] in ottemperanza ordini precedenti et proclama odierno S.M. il Re et Maresciallo Badoglio" (Levi, Fioravanzo, 573). Le truppe del "Commonwealth" guidate dal colonnello Kenyon cominciarono a sbarcare a Kos il 13 settembre. L'ordine era di "cooperare" con gli italiani per mantenere Kos in possesso alleato: l'importanza dell'isola, infatti, dopo la capitolazione di Rodi in mani tedesche, era data dalla presenza dell'aeroporto di Antimachia. Anche le truppe germaniche ritenevano quella postazione indispensabile per il controllo dell'area: "L'isola riceve la sua importanza - recita il resoconto tedesco successivo agli avvenimenti - dall'aeroporto di Antimachia che è posto al suo interno. Antimachia in quel momento era già occupata dalle unità aeree inglesi che da lì disturbavano in modo efficace e persistente il traffico dei rifornimenti nell'Egeo, ma soprattutto nel Dodecaneso. Scopo principale dell'impresa contro Kos era perciò la conquista della base aerea nemica, per utilizzarla, successivamente, a favore della propria forza aerea". Fu così che la "piccola" storia di Kos entrò nella grande storia degli interessi contrastanti delle potenze belligeranti della Seconda Guerra mondiale. Fin da prima dell'armistizio, il premier britannico Winston Churchill aveva sostenuto che l'Egeo dovesse essere inserito tra le priorità degli Alleati, e aveva fatto predisporre dai propri comandi l'operazione "Accolade", che prevedeva la conquista di Rodi e delle altre isole del Dodecaneso. Tuttavia, la strategia mediterranea di Churchill, che, come è noto, assegnava al bacino europeo - quindi all'Italia, alla Grecia e all'Africa settentrionale - un'importanza preminente, si era scontrata fin da subito con la strategia mondiale ed atlantica dell'alleato statunitense, che aveva costretto a distaccare le forze predisposte per "Accolade" su altri fronti. L'armistizio con l'Italia aveva però riportato l'Egeo alla ribalta, e il premier britannico, ritenendo che fosse arrivato il momento di "improvvisare e osare", aveva ordinato al comandante supremo del Medio Oriente, il generale Maitland Wilson, di procedere all'operazione sul Dodecaneso (Churchill 1979, 216). All'interno del piano "Accolade", l'occupazione e il mantenimento di Kos prendevano il nome di "operazione Microbe". L'interesse britannico per quell'area era motivato da più obiettivi: innanzitutto, gli inglesi ritenevano che la perdita delle isole del Dodecaneso e delle Sporadi settentrionali da parte dei tedeschi, avrebbe costretto questi ultimi ad abbandonare anche Creta e quindi la Grecia continentale e, di conseguenza, la penisola balcanica; in secondo luogo, l'occupazione alleata dell'area Egeo avrebbe convinto, nei piani di Churchill, la Turchia ad entrare in guerra al fianco delle Forze alleate, fornendo a queste ultime delle utilissime basi aeree verso est; in terzo luogo, un impegno considerevole nel Mediterraneo orientale avrebbe guadagnato alla Gran Bretagna dei validi punti d'appoggio per rivendicazioni postbelliche nell'area egea e mediorientale (Roberts 2009, 360). Gli americani, e parte degli stessi vertici militari britannici, erano però di idea diversa: un intervento nel Dodecaneso rappresentava, infatti, una distrazione di forze dalla campagna d'Italia e dalla preparazione della "big thing", l'operazione "Overlord", lo sbarco in Normandia, l'attacco diretto al "cuore del problema", cioè la Germania. A Kos britannici e italiani fecero una delle prime prove, forse la prova generale, di quella che, dalla metà dell'ottobre 1943, sarebbe stata la cobelligeranza. Non fu una prova facile, né felice, né, lo vedremo, riuscita. I rapporti tra gli ex nemici furono subito molto tesi: gli inglesi arrivarono sull'isola in veste di occupanti vittoriosi; gli italiani non riuscirono tuttavia a sentirsi come nemici sconfitti, avendo difficoltà, nelle condizioni di isolamento di cui abbiamo detto, a percepire la portata e le conseguenze di un armistizio che mascherava una vera e propria resa incondizionata. Tuttavia, gli italiani di Kos erano ben disposti e pronti a collaborare - Leggio era definito un "uomo del re e di Badoglio" e la stessa cosa, in linea generale, poteva dirsi degli uomini che comandava - anche se, probabilmente, più desiderosi di utilizzare questo tipo di cooperazione per ottenere il rimpatrio che per continuare la guerra contro il nuovo e comune nemico. Comunque stessero le cose, gli inglesi non si fidavano molto dei nuovi "amici", ritenuti inattendibili politicamente, in quanto era stato chiesto loro "di abbandonare tutte le dottrine fasciste all'improvviso", e inadeguati da un punto di vista bellico: «Le truppe di difesa costiera – annotava Kenyon – erano in generale rilassate, l'artiglieria era quasi senza addestramento, e molte armi erano posizionate molto male. Gli ufficiali e le truppe erano praticamente senza esperienza di guerra»". Saltiamo a questo punto agli avvenimenti bellici veri e propri: "Il 29 settembre il generale Friedrich Wilhelm Müller, comandante della 22esima divisione, di stanza a Creta, ricevette l'ordine di attaccare Kos, cioè di procedere con l'operazione "Eisbär - Orso polare". Ingenti furono i mezzi messi a disposizione di Müller: quattro reggimenti di artiglieria, un battaglione antiaereo e uno del genio, un reggimento granatieri, le compagnie di cacciatori costieri e dei paracadutisti del Brandeburgo e, in particolare, numerosissimi mezzi marini da sbarco e sommergibili. Tutti questi mezzi nautici stavano per distruggere le certezze britanniche, "spiegate, rispiegate […] dette, ridette, ripetute, inculcate" anche in ognuno dei soldati italiani presente sull'isola, relative a un attacco tedesco dal cielo. I tedeschi, in tutto circa un migliaio, sbarcarono a Kos nelle prime ore del 3 ottobre, e colsero italiani e britannici completamente di sorpresa. La confusione paralizzante, la mancanza di ordini precisi e coordinati tra il Comando inglese e quello italiano, le direttive contraddittorie, permisero alle truppe germaniche una veloce avanzata, facilitata, anche, dall'aperto tradimento di una batteria italiana - la 62esima, comandata dal capitano di artiglieria Camillo Nasca -, e da una contemporanea e intensissima azione aerea, praticamente incontrastata. In pochissime ore i tedeschi fecero centinaia di prigionieri, mentre altri soldati, sia italiani sia britannici, abbandonavano le proprie postazioni e cercavano scampo sia sui monti sia dirigendosi, con mezzi navali a volte improvvisati, verso le coste turche. Le richieste di aiuto rivolte a Lero e a Cipro, nonostante le numerose promesse, non furono soddisfatte. Nessun mezzo, né nautico né aereo, giunse in sostegno delle truppe di Kos. Alcuni reparti, comandati perlopiù da ufficiali inferiori, tentarono un'accanita resistenza, e spesso furono costretti a cedere per l'esaurimento delle munizioni. Il giovane tenente Franco Di Giovanni, al comando della 12esima compagnia mitraglieri stanziata sull'istmo di Cefalo, rifiutò per ben due volte di arrendersi, e il suo reparto fu l'ultimo a cedere, nel tardo pomeriggio del 4 ottobre. La sera di quel giorno la situazione poteva ormai considerasi pacificata. Sulle truppe italiane che avevano resistito a Kos si affacciava a quel punto lo spettro di Cefalonia, così com'era stato minacciato dagli stessi tedeschi durante le ore di combattimento. Un volantino lanciato sull'isola dagli aerei della Luftwaffe recitava infatti: "Italiani, la resistenza che i vostri camerati, per la sconsigliatezza dei loro comandanti, hanno fatto a Cefalonia e Corfù, contro i soldati tedeschi, è stata infranta decisamente e con perdite sanguinosissime da parte italiana. Anche a Coo, come a Cefalonia e Corfù, le truppe hanno dovuto pagare col sangue la loro vana, inconsulta resistenza". I tedeschi, che persero durante i combattimenti quindici uomini ed ebbero settanta feriti ottennero a Kos un ricco bottino in armi, munizioni, mezzi italiani e inglesi. I prigionieri furono ben 4.533, di cui 1.388 inglesi e 3.145 italiani". Ora il racconto si fa drammatico: "La conseguenza, per gli inglesi catturati, fu la prigionia, dura ma tutelata dalle convenzioni internazionali. Il destino che attendeva gli italiani, invece, fu immediatamente tratteggiato dallo stesso Churchill: «Dì agli italiani - scrisse a Wilson il 3 ottobre, mentre a Kos si combatteva - quale terribile sorte li attende se cadono nelle mani degli Unni. Saranno fucilati in massa, soprattutto gli ufficiali, e i superstiti saranno trattati non come prigionieri di guerra ma come schiavi lavoratori per la Germania». Gli ufficiali italiani furono infatti considerati traditori. Fin dalla sera del 4 ottobre furono separati dai propri sottoposti, che vennero concentrati nel castello di Kos Town e nel campo di aviazione di Antimachia, e subito impiegati in lavori, malmenati, tenuti a digiuno per giorni e puniti, anche con la fucilazione, per la minima disattenzione o accenno di protesta. Gli ufficiali furono invece divisi in due gruppi e condotti in diverse località dell'isola. Il primo gruppo fu portato nella piana di Linopoti, un'area paludosa all'interno dell'isola; il secondo gruppo fu invece condotto, probabilmente in un momento diverso, prima a Camare e poi nella zona di Lambi, quest'ultima nella parte nord-orientale dell'isola, non lontana da Kos Town. Dal trasferimento furono esclusi alcuni ufficiali, cioè tutti i collaborazionisti della prima ora (il capitano Nasca e il sottotenente Pyerraimond), i due ufficiali della milizia (il centurione Tetro e il capo manipolo Mastoro), i nove ufficiali medici e il tenente Zucchelli, comandante dei Carabinieri di Kos. Arrivati in dette località, gli ufficiali furono sottoposti a un processo di discriminazione, basato sull'aver partecipato o meno ai combattimenti appena conclusisi. Alcuni riuscirono a dimostrare di non aver preso parte alla battaglia; altri, entrati nelle grazie dei tedeschi, furono esclusi dalla fucilazione; altri ancora si salvarono perché i propri sottoposti si assunsero in modo esclusivo la responsabilità della scelta di lotta. Tuttavia, in alcuni casi, la decisione tedesca fu totalmente arbitraria, e nella lista dei condannati finirono ufficiali veterinari, di mensa, di propaganda, cioè non appartenenti a truppe combattenti. Vi finì anche il tenente Salvatore Coratza, colpevole di non avere voluto consegnare ai tedeschi la bandiera del reggimento, che è oggi conservata al Vittoriano. Ai non discriminati i tedeschi ordinarono di preparare un bagaglio leggero per la prossima partenza per il continente, il bagaglio che sarebbe stato ritrovato nelle fosse comuni rintracciate a Linopoti nel marzo del 1945. Nessuno seppe, fino ad allora, che fine avessero fatto gli ufficiali del decimo reggimento "Regina". Si credeva poco, in effetti, alla versione ufficiale, cioè quella della deportazione nei campi d'internamento, versione sostenuta anche dal capitano Nasca, che era stato presto nominato dai tedeschi comandante degli italiani tenuti prigionieri sull'isola, in veste di combattenti e perlopiù di lavoratori coatti. E' probabile, invece, che Nasca sapesse la verità, e che la sapesse fin dall'ottobre del 1943: a provarlo ci sarebbe la sua ostinata volontà nel proibire, alla popolazione, ai commilitoni, al cappellano Sportoletti o al parroco cattolico Bacheca, di svolgere ricerche nell'area di Linopoti. Sicuramente la verità era nota agli inglesi, e allo stesso Churchill, che già il 10 ottobre scriveva di aver saputo che i tedeschi avevano fucilato a Kos "89 ufficiali"; il giorno successivo era invece il quartier generale del Medio Oriente a rincalzare, trasmettendo un comunicato in cui si sosteneva che "circa cento ufficiali italiani sono stati uccisi a sangue freddo dai tedeschi dopo che si erano arresi a Kos". Le fosse di Linopoti furono scoperte nell'aprile 1944 ma i corpi non poterono essere esumati prima del marzo 1945. I tedeschi, assente momentaneamente Nasca, diedero il permesso a patto che le salme fossero sepolte nel cimitero cattolico senza funzioni religiose, senza pubblicità eccessiva e in una nuova fossa comune, priva di qualsiasi iscrizione. I corpi ritrovati furono 66, troppo pochi per appartenere a tutti gli ufficiali presumibilmente fucilati. Le fonti tedesche parlano dell'esecuzione di 89 ufficiali, così come il comunicato di Churchill, citato in precedenza, del 10 ottobre, mentre il comando mediorientale parla di circa cento". Mi fermo qui con la sgradevole impressione che certe vicende tragiche, evocate partendo dai fatti di Kos e dei migranti che sbarcano nell'isola, sono state scientemente nascoste nel l'insegnamento della storia italiana. Non perché fatti minori, ma perché in fondo le Forze armate tendono sempre ad occuparsi delle vittorie e non delle sconfitte e forse anche perché una parte miope e ideologica della Resistenza tendeva a misconoscere certe vicende che avevano riguardato l'Esercito.