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21 ago 2015

Cuba e la bandiera americana

di Luciano Caveri

I recenti fatti della politica valdostana illuminano sul fatto che anche alcuni "rivoluzionari" duri e puri possono essere ammansiti e democristianizzati in perfetto stile Matteo Renzi. «Cercava la rivoluzione e trovò l'agiatezza», diceva malignamente Leo Longanesi. Più serio George Orwell: «Ogni opinione rivoluzionaria attinge parte della sua forza alla segreta certezza che nulla può essere cambiato». Per cui alla fine ci si adegua. Così la grande utopia castrista a Cuba, che non è - come cercano di dire quelli che devono giustificarsi di essere "voltagabbana" - una mirabile operazione di compromesso al rialzo, ma niente altro che l'ammissione di una sconfitta. Sono cresciuto con amici comunisti che me la menavano con il "modello cubano", svanita l'illusione del socialismo reale di Russia e dei suoi satelliti, finite le speranze asiatiche dalla Cina alla Cambogia, per non dire del Vietnam e della Corea del Nord, restava Fidel Castro con i suoi amichetti centro o sudamericani.

Dei "caudilli" e niente più, con l'aggravante cubana della nota circostanza che portò nel 1962 a due passi dalla guerra nucleare, che avrebbe scatenato uno scontro globale utile per spazzar via l'umanità, dandone la colpa agli "yankees" cattivi. Gli americani ne hanno fatte di cose gravi, ma le loro Istituzioni, con tutti i limiti del caso, si basano su di una Costituzione che, per quanto antica, regge una democrazia solida. Mi ero già fatto un'idea, leggendo i libri su Cuba (anche se da ragazzo seguivo su "Linus" le cronache filocubane di Saverio Tutino) con lo svelarsi di un abbaglio per chi credeva in questo comunismo caraibico, ma due vacanze a Cuba mi avevano confermato, nella povertà disperata e dignitosa degli abitanti, che si trattava niente altro che di una dittatura familistica. I "gringos", gli americani, erano il capro espiatorio di un regime che puzzava di corruzione e di incapacità, malgrado la retorica di un popolo colto, di una sanità mirabolante, di una lotta popolare anti-capitalista vissuta. Tanti comunisti italiani andavano in visita a Cuba come in un luogo magico e cadevano stregati dalla propaganda di regime. Io, nel mio piccolo, avevo visto una grande prigione. Così alla fine Raul Castro, fratello dell'ormai rimbambito Fidel, ha sdoganato gli Stati Uniti, assicurandosi di non fare la fine di Nicolae Ceausescu e gli USA hanno, come atto simbolico, riaperto l'ambasciata a 54 anni dalla sua chiusura. Se democrazia non sarà e in fretta, il rischio è che l'isola torni ad essere una succursale degli Stati Uniti con bordelli e casinò, cui proprio Fidel si ribellò giustamente - pieno di ideali poi rapidamente sgonfiati - cacciando quel dittatore da "Repubblica delle banane" che fu Fulgencio Batista. Dicevo di Tutino e ricordo bene, perché coincide grossomodo con uno dei miei soggiorni a Cuba, quando nel 1994, in un'intervista al "Corriere della Sera", Tutino esplicitò, con grande onestà intellettuale, i suoi ripensamenti a molti anni di distanza: «Sì, lo ammetto. Io sono stato forse il maggiore responsabile della creazione del mito cubano in Italia, il mito di una società giusta ed egualitaria. Mi sono sbagliato e ho pagato quello sbaglio. Il mito nasce quando un uomo politico lo crea intorno a sé. E, tra tanti difetti, bisogna riconoscere a Castro di essere un politico di notevole calibro. Ha capito che la politica si fa con i miti e non con i decreti». Un'osservazione intelligente e lucida sui rischi dei leader carismatici. Certo Castro osserva da vivo e dal vivo il proprio fallimento, che è tutto in quella bandiera americana stelle e strisce che garrisce al vento di Cuba, senza la benché minima protesta popolare per questo ritorno (anzi!) e con milioni di turisti americani, compresi i cubani immigrati negli "States", che si preparano a invadere, da turisti, l'isola in un "punto e a capo" della Storia. Va comunque sempre bene la Pace, anche se in fondo seppellisce intensi ma purtroppo ideologici sogni di libertà, infrantisi contro la dura realtà, perché la democrazia con tutti i suoi difetti resta la democrazia (se praticata...).