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22 giu 2015

Ciliegie

di Luciano Caveri

L'antropologa Françoise Héritier elenca alcune cose in piacevoli (definite "sels de la vie"), in un suo libro, e fra le altre: «les fous rires, les coups de fil à bâtons rompus, les lettres manuscrites, les repas de famille (certains) ou entre amis, les bières au comptoir, les coups de rouge et les petits blancs, le café au soleil, la sieste à l'ombre, manger des huîtres en bord de mer ou des cerises sur l'arbre, les coups de gueule pour rire...». A parte le ostriche che non mi piacciono, sottoscrivo pienamente e voto, come prima della lista, la raccolta delle ciliegie dall'albero. Ci riflettevo ieri guardando un cesto di ciliegie e scoprendo come ci siano abilità che si interiorizzano per sempre, come la capacità di distinguere dal solo colore la bontà o meno di ciascun frutto.

Ricordo, come apprendistato, le primavere in giro in bicicletta alla ricerca di quelle monumentali piante di ciliegie fra Arnad e Issogne, nella bassa Valle d'Aosta, sempre in anticipo di stagione sul resto. Sono luoghi ben noti alla memoria, che davano - nella potenza della Natura che si risveglia - il senso dell’arrivo della bella stagione e di quella frutta così clamorosamente colorata (per attirare gli animali che, ingerito il dolce frutto, evacuano i semi che garantiscono la specie), che viene raccolta direttamente con evidente soddisfazione. Anche se, ogni volta che si saliva sino alle fronde più alte del ciliegio, aleggiava come una maledizione l'ammonimento genitoriale sui rischi della scarsa tenuta dei rami della pianta, che tendeva ad essere flessibile ma con il rischio di cedimenti pericolosi mentre si allungavano le mani sul frutto. Per qualche cinéphile evoco a questo proposito il film lugubre di Luigi Comencini, "Incompreso - Vita con il figlio", che diede una botta di tristezza alla mia infanzia con scena di una caduta del protagonista, Andrea, per via di un albero che si spezza con terribile caduta che cagiona la morte del povero bambino infelice. Ma torniamo alla vita, attraverso le ciliegie, ricordando come, ai due antipodi del piacere, ci fossero i detti del genere "una ciliegia tira l’altra (come i baci)", esatta rappresentazione della golosità indotta dalla dolcezza della ciliegia e poi - rottura di scatole per chi girava in bici sotto il sole - quell'altra raccomandazione: «non bisogna bere mangiando le ciliegie». Andrebbe aggiunto, con censura connessa per chi - come me ed ai miei amici d'infanzia - saliva su alberi altrui, il detto: «le ciliegie rubate sono più dolci», ma è politicamente scorretto... Ma poi, scava scava, ritorna alla memoria anche quel verso finale della "Chanson du mois de mai" di Jacques Prévert: "La vie est une cerise, La mort est un noyau, L'amour un cerisier". E' vero che se qualcosa è cambiato è un'altra abitudine, quella del desiderio in occasione dell'assaggio della prima frutta di stagione. Oggi, per chi come me è diventato curioso nel corso della spesa nei supermercati, si resta stupefatti dal fatto che ormai le stagioni non ci siano più nella frutta in vendita. In barba ai discorsi sui "chilometri zero" (che cosa mangerebbero nelle stagioni senza frutta i poveri montanari?) sulle scansie dei negozi si trovano frutti che arrivano da molto lontano e soprattutto varietà un tempo ignote o inavvicinabili per i prezzi. Uno dei lati della mondializzazione che sposta merci e prodotti con un ritmo forsennato, ben diverso da quei ritmi lenti del passato che spostavano anche le piante da frutto. Com'è avvenuto con la ciliegia, che Plinio il Vecchio ci dice che fu importata dall'attuale Turchia (da "Cerasia", che ha dato il nome al frutto) a Roma nel 72 a.C. e da qui la coltivazione si diffuse dappertutto, comprese le nostre pendici delle Alpi. Il successo è nella diffusione della pianta, ma è persino testimoniata in Valle d'Aosta dal cognome Cerise, assai diffuso!