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30 apr 2015

Quel giorno d'Aprile

di Luciano Caveri

Oggi si festeggia ufficialmente il settantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo (scriviamolo con chiarezza, perché uno spot di Palazzo Chigi è fatto in maniera tale da non capire da che cosa ci si sia liberati allora…). Ed io, di fronte alla voglia di scrivere qualcosa, sono questa volta come smarrito, che per un grafomane è piuttosto strano. Trovo difficoltà perché sono come sopraffatto da sentimenti molto contrastanti, distanti dalla retorica celebrativa da cui saremo investiti e che ho sempre rifuggito anche quando mi è capitato tante volte di parlare in occasioni ufficiali il 25 aprile. Confesso che parlare di fronte ai partigiani, specie a Pont-Saint-Martin o a Perloz dove mi invitava mio zio, Ulrico Masini, capo partigiano di "Giustizia e Libertà", così come in piazza Chanoux (grazie a mio papà riportato ad una persona in carne ed ossa e non solo alla figura mitica del martire), era per me un'emozione che mi consentiva di parlare con il cuore in mano, togliendo quegli orpelli retorici che spesso avvelenano gli oratori da celebrazione.

Il primo sentimento è la nostalgia verso tanti parenti e conoscenti che, in diverso modo, hanno vissuto quel fenomeno plurale che è stata la Resistenza e non ci sono più. Dalle loro vite, riassunte nei racconti raccolti fin da bambino, ho sempre avuto una consapevolezza di fondo: malgrado il loro coraggio e talvolta il loro eroismo, malgrado le loro paure e i loro dolori, malgrado la passione e le speranze, la Guerra che molti di loro avevano vissuto ancora ragazzi è uno schifo che svilisce l'uomo e, alla fine, nel distinguo sempre da fare, non ci sono vincitore e vinti. La violenza e l'orrore fanno rotolare la stessa umanità nel sangue e nel fango, ma - nel filo della ricostruzione storica - questo non vuol affatto dire che, settant'anni dopo, ci sia una specie di nebbia che tutto avvolge, anzi gli studi oggi ci consentono di distinguere con nettezza torto e ragione. Se avessero vinto i "cattivi" per il mondo sarebbe stata una tragedia. E bisogna sempre onorare chi scelse la parte giusta rispetto a chi optò per la parte cattiva, perché la pacificazione non può essere distorsione della realtà nel nome di un buonismo che sarebbe un torto per chi ebbe il coraggio di combattere il Male e non di aderirvi, quando molti elementi ormai consentivano una scelta non solo emotiva. Poi, naturalmente, come in tutte le cose, non c'è solo il bianco e il nero. Bisogna - ed il tempo lo consente - distinguere le "zone grigie" e mai nascondere i torti e le ragioni per semplice logica di schieramento. Ma la Resistenza è e resta un fenomeno, specie in zone come la Valle d'Aosta, che è intrisa di valori di fondo, che finiscono per essere più legati non ad aspetti meramente ideologici, ma proprio ai percorsi di vita di tanti partigiani e antifascisti, da cui si evidenziano processi di maturazione importanti di consapevolezza contro le dittature che bruciarono una parte degli anni migliori della loro vita. Oggi non so se il passaggio generazionale, che per me ha funzionato, funziona ancora o, come temo, quei fatti finiscano ormai catalogati come un accidente della Storia, utile da guardare da distante, ma non più vivente nel nostro presente. Sarebbe un torto terribile verso chi non solo morì per la libertà - e credo ne avrebbe volentieri fatto a meno - ma chi rimase segnato per tutta la vita dalla drammaticità delle vicende vissute, come mio padre ventenne nel periodo passato fra campi di sterminio e di lavoro. Sono fantasmi con cui finisci per convivere, ma che ti rodono l'anima. Giorni fa, ho intervistato uno dei liberatori di Aosta, Enrico Loewental, quasi novantenne, capo partigiano nella Valle del Gran San Bernardo, ben visibile il giorno della Liberazione di Aosta sulla camionetta militare sequestrata giorni prima ai nazisti. Lascio qui una sua frase su quel giorno, che ad Aosta fu il 28 aprile: «Il mondo, nella piazza principale, era pervaso di gioia: tutti i visi erano sorridenti. Per me, ragazzino ebreo, scampato alle persecuzioni, sonno stati momento di una gioia indicibile». Se devo scegliere una canzone da far partire a stacco dopo queste parole, propongo - e vi prego di cercarla per sentirla - la canzone "Quel giorno d'Aprile" di Francesco Guccini, di cui riporto una strofa:

"E l'Italia cantando ormai libera allaga le strade, sventolando nel cielo bandiere impazzite di luce, e tua madre prendendoti in braccio piangendo sorride, mentre attorno qualcuno una storia o una vita ricuce».

Ascoltarla mi commuove.