Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
16 apr 2015

Il tirchio e la sua avarizia

di Luciano Caveri

Il mondo resta uno straordinario palcoscenico. Mi capita spesso di guardare a me stesso e ai miei comportamenti, specie nel rapporto con gli altri, perché sulla propria pelle il libero arbitrio è una bussola. Così come confesso una viva curiosità nell'osservare le persone, note o sconosciute. E' una curiosità bonaria e non impicciona, che penso sia un sintomo di socialità da primati quali siamo malgrado l'origine scimmiesca sembra essere per alcuni chissà quale diminutio per l'umanità. Mi diverte molto riconoscere certe tipologie di persone nel campionario che si accumula e si arricchisce nel corso della vita. La memoria si allarga come i cerchi concentrici nel tronco di un albero. Così, pur avendo una mamma e antiche discendenze liguri, non sono per nulla tirchio (avaro, pidocchioso, spilorcio, taccagno, pitocco). E penso, per una naturale avversione, di essere dotato di una specie di detector che individua con facilità chi ne è vittima e permette di vedere e scrutare le loro tattiche per non spendere, specie sul gobbone degli altri.

Il vero tirchio soffre e gode in un moto perpetuo: soffre se si avvicina la necessità di metter mano al portafoglio, mentre gode quando riesce a non scucire neppure un centesimo. Ne ho conosciuti di imbattibili. Chi, giorno dopo giorno, riusciva ogni mattina a farsi offrire il caffè al bar, diventando alla fine una leggenda, caricatura di sé stesso, ma ormai del tutto calato nella parte tanto da andarne fiero, sbandierando questo suo modo di essere. Ho fatto viaggi con il tirchio della compagnia che perdeva il portafoglio, si trovava senza valuta locale, aveva la carta di credito smagnetizzata o un attacco di dissenteria alla vista del conto. Per lui, come il paletto di frassino nel cuore del vampiro, la peggior cosa, in gruppo, era la "cassa comune" per pagare certe spese, che gli stroncava i trucchi per evitare di pagare. Ne ho visti cavare di tasca il denaro come se fossero al rallentatore e ogni banconota era un pezzo di cuore che se ne andava.

Dante Alighieri fa finire avari e prodighi assieme all'Inferno, divisi in due schiere opposte, girando a semicerchio in direzione opposta. Come punizione ruotano con il petto enormi macigni fino a scontrarsi; quindi si rimproverano a vicenda la propria colpa e ricominciano a girare nel senso opposto, fino a scontrarsi e rimproverarsi nuovamente: così per l'eternità. Le pene del contrappasso dantesco sono ingegnose, crudeli e spesso beffarde nel colpire chi pecca. Ma - per dire come la penso - almeno il prodigo fa simpatia, mentre la sgradevolezza del taccagno non lascia scampo. Ha scritto il filosofo Umberto Galimberti ne "I vizi capitali e i nuovi vizi": «L'avarizia è il più stupido dei vizi capitali perché gode di una possibilità, o se si preferisce di un potere, che non si realizza mai. Il denaro accumulato dall'avaro, infatti, ha in sé il potere di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato, perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere a esso connesso». Un corto circuito vero e proprio. Conosco chi accumula denaro in questo modo con modalità che rendono chiaro come questi soldi non se li godranno mai. Ma questa accumulazione è davvero inutile nella vita e - se c'è qualcosa che ci aspetta dopo - certo non si porteranno nulla all'Inferno o in Purgatorio (dove Dante accomuna sempre avari e prodighi, legati e stesi su di un pavimento roccioso, con le spalle rivolte al cielo e il volto a terra, così come in vita furono rivolti ai beni materiali). E comunque il ricordo dei loro cari e di chi li ha conosciuti non sarà certo benevolo, perché l'avaro è odioso pure nel ricordo.