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25 dic 2014

Cuba ora spera

di Luciano Caveri

Immagino che per le giovani generazioni sia difficile capire perché, a chi abbia grossomodo la mia età o sia più vecchio di me, stia così a cuore la questione del riavvicinamento fra Cuba e Stati Uniti. E questo, in prima battuta, avviene di primo acchito, a prescindere dal giudizio dettagliato che si può dare di quanto per ora è solo una serie di annunci. L'immediato tratto distintivo riguarda la ragione per cui sono qui e non sono morto per un'esplosione nucleare ai tempi della guerra fredda. Non avevo ancora compiuto quattro anni quel 24 ottobre del 1962, quando scoppiò la crisi dei missili tra Stati Uniti e Unione Sovietica per i 42 ordigni nucleari che Nikita Kruscev aveva fatto installare a Cuba. La crisi si risolse in cinque giorni con la decisione di Kruscev di smontare i missili e di riportarli indietro ma il mondo fu veramente ad un passo dallo scontro definitivo. Fu un passaggio traumatico, che incise non poco negli anni successivi sull'equilibrio del terrore che ha retto il mondo e che ancora in parte lo regge, visto che le bombe atomiche ci sono ancora. Cuba è stata poi un tormentone per la mia generazione. I miei amici comunisti, ma anche mie letture giovanili come articoli su "Linus", usavano l'isola caraibica per rispondere a chi, come facevo io, criticava gli esiti del "socialismo reale" oltre la cortina di ferro. La rivoluzione di Fidèl Castro era di conseguenza un mito da alimentare in assoluto e anche contro i "gringos" che, con l'embargo, affamavano i cubani. Il tutto condito da retorica terzomondista che non ha retto al giudizio della Storia, così come il comunismo nel passaggio fra il dire e il fare. Lo avevano scritto con lucidità i federalisti personalisti, comprendendo sin da subito quanto di totalitario ci fosse nel comunismo, tolta l'affascinante componente utopista. Se già mi faceva venire il latte ai gomiti certa retorica, due vacanze a Cuba, con la curiosità di capire e di incontrare le persone, mi avevano riconfermato quanto fossimo di fronte ad una dittatura e come tale andava considerata senza sconti. Che poi prima l'Unione Sovietica e poi, di recente, il Venezuela cercassero di tenere in piedi un regime oppressivo e liberticida non stupiva. La stessa successione dinastica da Fidèl a Raùl dimostrava come l'apparato di potere del post rivoluzione fosse un'élite che desiderava perpetrare il proprio potere in un Paese, diventato per campare un bordello a cielo aperto. Tutti sapevano che il sistema prima o poi non avrebbe retto e non si può essere che stupiti dalla persistenza di un regime considerato oppressivo, specie dalle giovani generazioni, che prima con la televisione satellitare e poi con Internet hanno scoperto un mondo attorno a loro diverso da quello che la Propaganda voleva loro far credere. Compresa la consapevolezza della loro povertà opprimente e dei metodi repressivi per chiunque si dimostrasse critico. Ora vedremo come Barack Obama se la caverà con la maggioranza repubblicana scettica alla Camera dei rappresentanti e quali ostacoli, specie finanziari, verranno frapposti all'apertura annunciata. Capisco anche la perplessità degli intellettuali cubani esuli, che temono una sorta di legittimazione di un regime feroce che viola i diritti umani. Ma che la situazione di stallo si sia mossa io penso che sia un bene. Un focolaio di crisi come questo si era già naturalmente raffreddato nel tempo e specie quando ero stato a L'Avana mi ero convinto che l'orologio della Storia non potesse essere arrestato, come pareva avvenisse con i macchinoni americani anni Cinquanta ancora sulle strade, ereditati dall'epoca del dittatore Fulgencio Batista, prima della Revolution che nel 1959 lo cacciò dal Paese. Si volta pagina, dopo il fallimento di un disegno pieno di speranze e la sfida per i cubani negli anni a venire sarà ancora tutta in salita. Il ritorno della democrazia (sistema pieno di magagne, ma sempre meglio di un regime dittatoriale) è, comunque, un processo irreversibile.