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12 ott 2014

House of Cards

di Luciano Caveri

La Televisione, come dimostrato persino dalle dimensioni sempre più grandi di quello che fu all'origine un elettrodomestico, continua ad avere un ruolo essenziale nella nostra vita. E l'interazione inevitabile con la Rete porterà su quello schermo, come per ora avviene in modo limitato, un sacco di cose in più rispetto al già notevole proliferare di canali televisivi. Ognuno guarda quel che vuole ed esiste la legge democratica del telecomando e pure l'opzione di tenere spenta la televisione. Poiché un pochino me ne occupo, in una ristretta programmazione regionale, resto convinto che, senza fare i moralisti da strapazzo, qualcosa di vero - e lo è di certo per la "missione" specifica del servizio pubblico - c'è in una frase di vent'anni fa di Karl Popper che diceva: «chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi principi». Ogni tanto, guardando la televisione in modo mirato e con parsimonia, mi vien da dire: «ma a questa produzione o a questo Tizio chi gli ha dato la patente?». Ciò significa, per fortuna, che resto un telespettatore vigile a fronte di molti che si fanno ancora ipnotizzare. Come molte persone, seguo di questi tempi la seconda serie, in onda su "Sky Atlantic", di "House of Cards - Gli intrighi del potere". E' una serie televisiva americana per il servizio di streaming "Netflix", un nuovo modo di fare televisione, rispetto a quello tradizionale, ispirato ai libri di una trilogia dello scrittore inglese Michael Dobbs, cui era seguita una miniserie televisiva britannica ("Netfix France" sta girando qualcosa di analogo sulla politica francese a Marsiglia). Da noi in Italia penso che la realtà superi da tempo ogni fantasia. Se su "Sky" vi sono due puntate di seguito il martedì sera, negli Stati Uniti la prima stagione è stata interamente resa disponibile il 1º febbraio dello scorso anno ed il 14 febbraio di quest'anno è stata messa in Rete per gli abbonati tutta la seconda stagione e sono molti gli spettatori che hanno fatto una vera e propria maratona notturna per vedersi, tutte una di fila all'altra, le puntate. La storia è semplice nel suo fine ultimo e cioè il "Potere" con la "P" maiuscola: il deputato del Partito Democratico Frank Underwood (interpretato dal celebre attore, Kevin Spacey) è capogruppo di maggioranza al Congresso e ha diretto la vittoriosa campagna elettorale di Garrett Walker, diventato il 45º presidente degli Stati Uniti. Non gli viene però affidato l'atteso incarico di segretario di Stato, per cui scattano una serie di vendette e riesce anche, fra mille storie collaterali a diventare vice presidente. Nella parte della moglie Claire è la seducente attrice Robin Wright. Qualche tempo fa, Matteo Renzi - che non ci fa mai annoiare - aveva detto nel corso di una Direzione del PD: «proporrei di riprendere un'idea di Walter Veltroni e poi di Pier Luigi Bersani su cui non abbiamo fatto niente, che è quella della formazione politica. Dobbiamo individuare un numero fisso di persone da formare con strumenti tradizionali di formazione politica ma anche con le serie televisive americane, so che qualcuno si mette mani nei capelli, ma imparare anche un racconto è importante». Si scoprì, tempo dopo, che si riferiva proprio alla serie di cui sto parlando e proprio l'autore, il già citato Dobbs, gli ha risposto a breve giro di posta: «le mie storie non sono un manuale di istruzioni. Quando ho saputo che Renzi aveva comprato una copia del mio libro a Roma, ho ritenuto prudente mandargli una nota per ricordargli che il libro è solo intrattenimento e non un manuale di istruzioni». Trovo la precisazione giustissima: nessuna persona che faccia politica con correttezza e sulla base di elementari principi democratici potrebbe ritrovarsi nei metodi di Underwood, che usa persino l'omicidio come strumento per liberarsi delle persone scomode e usa la menzogna come elemento essenziale della rete di rapporti e di traffici con una serie di "fedelissimi" degni di finire in galera. Spesso, ancor prima di guardare come sia fatto il "Capo", basta guardare al suo "entourage" per sentire puzza di bruciato. Credo che la visione, anche appassionante della serie televisiva, sia e debba restare "intrattenimento" per quella logica piuttosto noir che rende intriganti anche i personaggi malvagi. Ma farne oggetto di studio per chi voglia formarsi alla politica appare grottesco e infondato. La formazione è una chiave essenziale per chi voglia far politica e occuparsi di amministrazione: anche in questo caso, come per chi si occupa di televisione, bisognerebbe esigere una patente o una licenza. Capisco che è un'iperbole irrealistica e che gli elettori non sempre scelgono sulla base delle reali competenze e pure tenendo conto di quella che dovrebbe essere una precondizione per chi si trova in mano denaro pubblico, vale a dire l'onestà personale. Ma esigere cultura e conoscenze - e per fortuna competenti ce ne sono - non è un gioco classista o "ad excludendum": spesso la politica non è un percorso che derivi da chissà quale formazione scolastica o cattedratica. Ma non vale neppure l'idea che il vuoto assoluto, la semplice simpatia, la superficialità siano elementi da prendere come se nulla fosse. Per poi lamentarsi della della classe politica, che è niente altro che - con il bene e con il male - l'elettorato allo specchio.