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27 ago 2014

Attento che ti resetto!

di Luciano Caveri

Non c'è bisogno di essere sociologi o etnologi per studiare la tribù dei diciottenni di oggi, è sufficiente essere papà ed aguzzare la vista. So che ci vuole cautela nel farlo: quando io avevo quell'età mio padre aveva più o meno la mia età di oggi, mia madre ne aveva meno di cinquanta, ma a me sembravano "vecchi come il cucco" (da Abacucco, personaggio biblico rappresentato come un anziano con lunga barba bianca) e scarsamente reattivi rispetto al mio mondo e ai suoi usi e costumi. Esisteva ancora quella definizione presessantottesca (il 1968 fu l'anno simbolo della "contestazione giovanile"), che "bollava" i vecchi e la loro incapacità di capire i cambiamenti come "matusa", derivando non per nulla - come già la parola "cucco"! - da un patriarca biblico, Matusalemme, morto all'età di 969 anni. Per cui, se tanto mi dà tanto, dev'essere la stessa cosa, quando osservo i loro comportamenti come Charles Darwin guardava le specie trovate alle Galapagos, che loro provano per me, pateticamente antiquato, oltretutto con il vezzo della mia di generazione di un certo giovanilismo d'accatto. Ma, comunque sia, questo non cambia qualche pensiero sulle creature. La constatazione generale è che sono molto assistiti da noi "genitori multitasking", pronti a risolvere con grande capacità protettiva ogni loro bisogno. Predichiamo in pubblico l'importanza dei "bagni freddi" (immagine figurata che non ha nulla con le patetiche docce gelate di moda ora per scopi benefici), ma in realtà abbiamo attrezzato nidi confortevoli per la nostra progenie. E' nato il "genitore autista", curiosa evoluzione della specie, che scarrozza i figli ovunque, considerando l'uso del mezzo pubblico come una sciagura. Altro esempio: i nostri genitori erano per formazione e partito preso a favore dell'autorità costituita. Era raro che, per i risultati scolastici o per qualunque altro caso, "parteggiassero" per noi, mentre noi siamo partigiani dei nostri figli ed esiste in alcuni persino una forma di complottismo, come se il figlio fosse perseguitato alla stregua del povero Calimero con la sua celebre frase «è un'ingiustizia però...». Ma l'aspetto in cui l'abisso generazionale è chiaro riguarda l'uso del telefono. I ragazzi di oggi non telefonano agli amici. Anche di fronte alla necessità più impellente non usano la voce, antica conquista del primate uomo, ma usano il messaggino (oggi "Whatsapp"). Quando chiedo perché non lo facciano, mi guardano con lo sguardo che si può riservare ad uno che usi ancora oggi la "cartacarbone". Telefonino che ha due caratteristiche salienti. Se li cerchi con urgenza: a) non rispondono perché il telefono era scarico; b) non rispondono perché avevano messo il silenzioso. Ogni protesta e obiezione intelligente ti permettere di ricevere il solito sguardo compassionevole. Ma l'apoteosi sono i "social". La generazione nata negli anni Novanta sarà oggetto di studi appositi per le conseguenze sulla socialità reale, cioè quella vera "faccia a faccia", derivata dalla socialità digitale di strumenti di cui resta capofila "Facebook". Ora è vero che sui "social" ormai ci vanno tutti, ma per i ragazzi di quegli anni si è creato un problema fra i rapporti umani veri e quelli nel mondo di Internet. Questo ha creato in loro nuove forme di timidezza e di vaga asocialità nella dimensione del contatto umano. Quando fai questa osservazione, la tesi finisce fra gli spam in un millesimo di secondo e ti spiegano con garbo che «non capisci un tubo», anche se magari l'espressione è un pochino più colorita. Per cui, per quel che mi riguarda non brontolo più, uso semmai l'arma insidiosa dell'ironia e qualche battuta di spirito che mi conferma - ai loro occhi, ma con affetto - come un oggetto di studio per la mia ormai inguaribile vecchiezza. Potessero cercherebbero il tasto "off" per spegnermi un attimo o il buchino apposito per "resettarmi".