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21 ago 2014

Se la pianta ti fa l'occhiolino

di Luciano Caveri

Invidio chi ha il "pollice verde": ne sono del tutto privo e la mia mancanza di dimestichezza nell'interazione con il mondo vegetale non è inimicizia, ma goffaggine. Tempo fa, ho letto un articolo sul tema di quel divulgatore competente che è il giornalista scientifico e scrittore Piero Bianucci de "La Stampa", sul tema - che vagamente mi inquieta perché non vorrei apparire maleducato con piante e fiori che incontro - del comprendonio degli organismi vegetali. L'incipit spazza via gli eccessi di chi esagera sul punto: «C'è chi parla alle piante, e persino chi crede di riceverne risposta. Sono comportamenti animistici, viziati da una visione antropomorfica della natura diffusa nel pensiero new age. Eppure non si può negare che qualche fondamento scientifico ci sia». Insomma un'apertura timida ma razionale. Segue il racconto del cammino delle scoperte: «Vent'anni fa Daniel Chamovitz, biologo dell'Università di Tel Aviv, ha scoperto che nel nostro patrimonio genetico abbiamo un gruppo di geni che esiste identico nelle piante. Nel 2009 i biologi sono riusciti ad accertare che quei geni regolano la risposta alla luce non solo negli organismi vegetali ma anche negli animali e nell'uomo. Stiamo parlando, in sostanza, di geni comparsi in un'epoca remota, così fondamentali per la vita che l'evoluzione biologica li ha conservati intatti dalle alghe a "Homo sapiens"». Ecco poi gli elementi sintetizzati in un libro: «Se le piante sono nostre cugine, sia pure alla lontana, è lecito domandarsi fin dove si spingano le affinità dovute a questa parentela. Forte del prestigio conquistato con la sua scoperta dei geni comuni, Daniel Chamovitz ci offre la risposta nel libro "Quel che una pianta sa: guida ai sensi nel mondo vegetale" (Raffaello Cortina, 180 pagine, 18 euro). Ebbene: le piante vedono, annusano, toccano, comunicano e odono. Basta mettere le virgolette a questi verbi per evitare la deriva new age». Ho cominciato a leggere il libro, che ho trovato in francese come ebook. Ma intanto penso ad amori e odi verso le piante che mi stanno vicine. Anni fa mi avevano regalato un "ficus benjamin" che avevo messo nel mio ufficio in Consiglio Valle: viveva placida. Quando l'ho spostata alla "Rai", forse per la luminosità maggiore, deve aver pensato di vivere nella foresta amazzonica, crescendo a dismisura sino a finire in uno spazio comune. Rischiavo di spostarmi nella stanza con una liana come Tarzan. Il disprezzo, invece, credo che lo colga, con un fremito di paura se ha memoria dei miei "strappi", il rampicante presuntuoso che dalla casa dei vicini si diffonde verso la mia e se non intervenissi farei la fine di un tapino strangolato da una piovra. Ma l'apoteosi del rapporto fra vegetali e umani è certamente l'orto, sintesi del nostro tentativo riuscito di addomesticamento. Io compro frutta e verdura in negozio, ma sono circondato da diverse persone che sono per il jardin potager come Niccolò Paganini era per il suo violino. Produrrebbero nel deserto o su una pietraia. Quel che colpisce è che la passione si trasforma presto, con ansia di prestazione, in una produttività che farebbe impallidire il famoso minatore russo A. G. Stachanov (1906-1977), che nel 1935 segnò un primato nella quantità di carbone estratto individualmente. Da lui il termine "stakanovista", ideale per definire chi di orto colpisce, facendo del suo pezzo di terra il luogo dove cresce ogni ben di Dio da distribuire a parenti e amici. Non solo perché chi produce ha un'anima buona e una logica ridistribuiva, ma perché - con il passare degli anni - l'orticoltore coltiva e coltiva sempre più a dismisura, finendo in genere per avere una produzione equiparabile a un piccolo Stato europeo. Invidio chi coltiva un orto o cura un giardino, perché come ha scritto Erik Orsenna: "Tout jardin est, d'abord, l'apprentissage du temps, du temps qu'il fait, la pluie, le vent, le soleil, et le temps qui passe, le cycle des saisons".