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18 giu 2014

Finiti nel pallone

di Luciano Caveri

In queste ore - con l'interesse di un osservatore sereno - incomincio a vedere che in molti, per ora pieni di speranza, vedono la vita più rosa, perché sono finiti nel pallone. Premetto che la questione non mi stupisce: ho amici, anche in politica, che incontravo o no il lunedì, a seconda dell'esito, la domenica, della loro squadra del cuore. La sconfitta innescava in loro, e bisognava tenerne conto, un atteggiamento "greundzo" senza scampo, per cui meglio lasciar perdere. Il calcio come barometro degli umori! Naturalmente vale l'inverso e cioè il "bello stabile", da alta pressione, nasceva con la vittoria. Tutto ciò per dire che, malgrado i numerosi scandali nel calcio italiano, genere i reiterati casi noti come "calcio scommesse", cui si sommano porcheria in scala europea e mondiale (i Mondiali in inverno nel 2022 nell'impossibile Qatar, a suon di mazzette, ne sono il chiaro esempio), i Mondiali di calcio, iniziati in Brasile, catalizzano l'attenzione. Confesso che mi sarebbe piaciuto andarci: sono stato qualche volta in quel Paese meraviglioso, che giustifica con la sua bellezza e varietà ampiamente la "saudade" (nostalgia mista a rimpianto) di chi ci è stato e vorrebbe tornarci, ma il gigantismo di questa manifestazione mi fa un po' paura e gli entusiasmi mi si sono subito spenti. Anche il moscio nazionalismo italiano si rinvigorisce con i Mondiali e il fenomeno è ben noto e l'esordio vittorioso con l'Inghilterra di questa notte è come due pastiglie di "Viagra": escono bandieroni tricolori, ci sono maglie azzurre in giro e nascono mille promozioni di prodotti legati all'evento. Il soufflé si gonfierà o sgonfierà a seconda dell'esito della Nazionale: se lo "Stellone italico" brillerà come da brillante esordio, allora crescerà il senso di appartenenza e di fierezza, altrimenti aspettatevi accuse e tormenti sul perché le cose non abbiano funzionato. Si passa dalle stalle alle stalle in quattro e quattro otto. Il "quasi gol" non esiste nella realtà e dunque non ci saranno vie di mezzo: o gioie o dolori. Fa strano che uno sport con tanti tifosi - la definizione "sportivo" vale per chi lo sport lo pratichi - finisca per essere così terribilmente manichea. Esiste davvero qualcosa di antico, di tribale. Mi viene in mente quel vecchio libro degli anni Settanta di Desmond Morris "La tribù del calcio", con cui l'etologo inglese, già autore del fondamentale libro sulla specie umana, "La scimmia nuda", inquadrò il calcio, i suoi simboli, i suoi riti, i giocatori (di cui, con evidente sberleffo, denuncia la generale pochezza intellettuale) e tutto l'entourage, comprese le "bande" di tifosi, in qualche cosa di atavico, risalente agli albori dell'umanità. Un libro decisivo, anche se all'epoca fu considerato bizzarro. Giorni fa, Gabriella Greison su "SportWeek", ha intervistato il vecchio professore, 86 anni, che ha annunciato il ritorno in libreria di quel suo lavoro: «Sì, verrà ripubblicato presto, ma non ho cambiato niente: sono diverse solo le foto, i tifosi, e le esultanze dei giocatori quando segnano. E' la semplicità del gioco del calcio che crea tutta questa dipendenza. Ci riporta al periodo in cui in piccole tribù andavamo a caccia di cibo: oggi ci sono i supermarket, non è più il cibo il nostro obiettivo ma è il gol, la rete rappresenta simbolicamente il nostro traguardo esistenziale. Ma se la squadra che scende in campo è quella della Nazionale, allora il significato per noi è ancora più eccitante». Comprate la riedizione, se non avete letto il libro allora, capirete di più anche sui Mondiali!