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23 apr 2014

Veterinario d'antan

di Luciano Caveri

Erano molti anni che non andavo da un veterinario. Rassicuro coloro a cui non sono simpatico: non parlo di una visita a me, ma al mio cane, Max, un pacioccone golden retriever. Da qualche settimana non sta tanto bene e aveva bisogno di una visitina e avendo sette anni incomincia, per un cane della sua razza, ad avere qualche acciacco. E' istruttivo vivere coi cani, perché il loro ciclo di vita più breve del nostro consente, nel corso della nostra vita umana, specie per i bambini, di capire meglio la ruota naturale e inarrestabile che regola la nostra e altrui esistenza. E' incredibile come basti poco per sprofondare nel passato. Entrato nello studio veterinario, mi sono ritrovato d'incanto bambino accanto a mio padre. Tante volte, infatti, capitava che per visite per cani o gatti stessi con lui nello studiolo a piano terra della casa di Verrès. A Sandro, mio papà, non facevano impazzire i piccoli animali. Preferiva come pazienti (oltre ai suoi due figli, come capitava scherzasse) gli animali di grandi taglia, in particolare i bovini, ma non per una preferenza riguardante le bestie, ma semmai i proprietari. Aveva maturato una teoria, interessante e spassosa, sul fatto che in troppe occasioni da visitare non erano i piccoli animali da compagnia, ma i loro proprietari afflitti da manie o nevrosi. Circostanza che - per un concetto del tempo, fatto per scattare e mai per dilatarlo - altri veterinari sfruttavano infittendo le visite, ma lui non lucrava mai e curava in modo essenziale e non seguendo un filone redditizio di animali che, a suo dire, erano vittime dell'ipocondria dei proprietari. Naturalmente questo non ha nulla a che fare con le emergenze per le quali in generale venivo chiamato come "aiutante", scoprendo la sua perizia nell'affrontare casi difficili, come cani finiti sotto una macchina o gatti caduti dal quinto piano. Mio papà era spiccio e andava al punto e era un mondo ben diverso dalle incredibili attrezzature di un veterinario di oggi. In certi casi, ho visto la sua sincera affezione per animali, quasi sempre cani, giunti al capolinea, quando - con grande partecipazione - praticava loro quell'iniezione letale, che consentiva loro di smettere di soffrire. Una lezione di vita. Coi gatti, invece, era sempre una comica: arrivavano più morti che vivi e si ripigliavamo, nella logica popolare delle "sette vite" e papà gigioneggiava sulle doti dei felini, stesi sul tavolo in marmo e che, a differenza dei cani riconoscenti, guardavano questo loro dottore con aria distaccata, se non di disprezzo. Se devo pensare a una differenza fra allora e oggi, sta in un mondo in cui anche l'amore più grande possibile per gli animali da compagnia non raggiungeva mai certe vette di paradosso attuale. Esistono filoni di animalismo in cui il giusto sentimento per i nostri compagni di vita - parlo degli animali domestici, ma vale anche per i selvatici - raggiunge livelli di sublimazione in un gioco parossistico, che finisce nei suoi acuti per trasformare gli animali in esseri viventi buoni "a prescindere" e gli esseri umani in creature terribili "senza se e senza ma". Ogni tanto ci vorrebbe una regolatina.