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21 apr 2014

Fra ombre e Far West

di Luciano Caveri

Ci torno oggi, a qualche giorno di distanza, per lasciare qui un ricordo. Mi riferisco al primo Congresso dell'Union Valdôtaine Progressiste, dove penso di aver parlato una dozzina di minuti. Niente di storico, per carità, ma alla fine ho ritrovato - come cronaca sul giornale - solo una battuta «Centoz di questi giorni!» (per altro scippata ad un amico). Mi riferivo al fatto che il giovane segretario del Partito Democratico, creando una polemica ora rientrata da parte dei tre consiglieri regionali del suo partito, aveva profittato dell'assise progressista per togliersi qualche sassolino dalla scarpa ad uso interno e non per un saluto in casa altrui. Mi spiace che del mio discorso, certo per colpa mia, non siano apparsi - tranne che per i presenti - due passaggi che ritenevo suggestivi e meritevoli di apparire, ma capisco di sfociare nell'autocelebrazione e già me ne pento... Il primo è stato l'uso del celebre "mito della caverna" di Platone, ispirato dalla singolare circostanza che - a causa di un pilone di cemento nel salone - dei segretari dell'Union Valdôtaine, Ennio Pastoret, e della Stella Alpina, Maurizio Martin, sentivo la voce ma vedevo solo le loro ombre sullo sfondo, in un gioco immaginifico. E delle ombre, come ricorda Platone, bisogna diffidare. Perché? Perché lui immagina, nel suo racconto, che delle persone imprigionate da sempre in una caverna vedano solo ombre riflesse sulla parete, frutto di oggetti trasportati all'esterno, le cui sagome vengono proiettatela sul muro a causa di un fuoco che si trova alle spalle delle persone intrappolate. Quindi - storia interessante anche per il nostro mondo, pieno di immagini ingannevoli - quel che vedono è fasullo. Sarà una persona che riesce ad uscire dalla caverna, dapprima abbagliata, a spiegare poi ai suoi compagni, del tutto scettici in prima battuta per la forza dell'abitudine e la paura dell'inganno, che il mondo vero e libero esiste davvero e non c'entrava nulla con quella riproduzione fittizia che vedevano sulla parete della loro prigione. Magnifica metafora di chi, nella politica valdostana, è ancora vittima di una situazione fasulla e ingannevole, da cui vale la pena di liberarsi, avendone forza e consapevolezza: altrimenti si resta schiavi e "ombre". Ricordando, tra l'altro, che il triste Carlo Dossi scriveva, a rafforzamento del ragionamento: «il falso amico è come l'ombra che ci segue finché dura il sole». Il secondo passaggio è la forza dei film western, che fossero americani o "spaghetti-western", con le loro banalizzazioni salvifiche - impresse nella formazione giovanile nei cinema di paese - del pistolero buono che sconfigge quello cattivo (ritrovabili anche nel fumetto formativo "Tex Willer") per non dire, cosa di chi vergognarsi ancor oggi, dell'adesione infantile alla rappresentazione degli indiani come giusta preda di cowboy e giubbe blu. Ma restava, comunque, quella frase del Capo indiano, da cui emergeva un'antica saggezza, apprezzata briciola del relativismo culturale che poi trionferà, come consapevolezza: «Io non avere lingua biforcuta». Dovrebbe essere questo ammonimento, nell'attuale fase politica, un punto di riferimento e una freccia che indica la strada per il futuro. Dirsi le cose senza secondi fini, ma con un fine solo: voltare pagina.