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05 mar 2014

Il demone del gioco

di Luciano Caveri

Guardateli, certo con discrezione, ma guardateli. Mi riferisco ai "drogati" del gioco. Li potete vedere nei bar, come ipnotizzati per ore, attaccati ad una slot machine. Oppure in coda dal tabaccaio, quando prendono fasci di "gratta e vinci" e si mettono a grattarli speranzosi. Li ho visti, in passato, in azione nel "Privé" del Casinò di Saint-Vincent, quando funzionava: c'erano persone che lasciavano sul tavolo cifre folli, senza battere ciglio. Io non ho mai giocato, se non qualche partita a poker con gli amici da ragazzino con puntate ridicole, e talvolta mi è capitato di entrare in qualche Casinò all’estero, prefissandomi un budget con cui passare il tempo. Ma si vede che non ho il "fuoco sacro" dell'azzardo, per cui tutto finiva lì. Ma conosco chi con il gioco si è rovinato, impoverito, diventando un fantoccio nelle mani dei "prestasoldi", bugiardo nel raggranellare qualche soldo, come i drogati che vogliono la loro dose. Quando un vizio, che immagino possa essere in qualche modo addomesticato, diventa, invece, una malattia da curare per disintossicarsi. Capisco l'obiezione: la Valle d’Aosta è sede di uno dei quattro casinò italiani e dunque, avendo anche avuto la responsabilità sulla Casa da gioco in gestione pubblica e avendo seguito tanti dossier sulla questione in Parlamento negli anni prima, sarebbe meglio il silenzio. Mi spiace, ma non ho problemi a parlarne. I casinò erano e sono un luogo chiuso e controllato, che ha anche formule di "espulsione" del cliente che diventa matto per il gioco, anche su segnalazione dei familiari o degli stessi addetti. Era un modo per aprire ad una attività, senza quel proibizionismo assoluto che avrebbe solo fatto ingrassare la malavita organizzata. Va ripensata, invece, l'apertura ai valdostani, proprio per evitare di trovarsi nella sua situazione che sto per descrivere. Infatti, a sbracare sul gioco in Italia, ci ha pensato proprio lo Stato, diventando nel tempo il più grande biscazziere in rapporto a qualunque Paese del mondo, moltiplicando i giochi a dismisura per "pelare" i propri cittadini, con lati oscuri in certe concessioni che fanno venire i brividi. I "Monopoli di Stato" sono diventati bravissimi ad occuparsene e, quando il politico di turno a Roma ha oggi problemi finanziari per lo Stato senza soldi, spuntano nuove idee per il gioco d'azzardo pubblico e parapubblico per ingolosire i giocatori con quella che è diventata una sorta di "tassa occulta sulla speranza". Per cui lo Stato, con buona dose di ipocrisia, si trova ad essere attento ai cittadini colpiti dal vizio del gioco (il termine "ludopatia" appare persino gentile, rispetto agli sfracelli che fa l'azzardo) e dall'altra alimenta il gioco, come se la mano sinistra non sapesse come fa la destra. Comuni e Regioni ora si muovono sul tema, avversati da lobbisti potenti e tentacolari, zigzagando fra norme di legge e ricorsi in sede amministrativa per bloccare l'eccesso di giochi. Come sempre, le sentenze dicono tutto e il contrario di tutto. Altro che certezza della Legge! Sarebbe bene che, a fare il punto, fosse davvero il Parlamento, predisponendo un quadro legislativo certo e omogeneo che intanto decida un blocco immediato di nuove iniziative e metta la marcia indietro. Ma basta scorrere le Finanziarie degli ultimi anni per vedere come, sul fronte delle Entrate, il gioco d'azzardo sia diventato una colonna portante dell'Italia e rinunciarci vuol dire trovare, come si dice tecnicamente, altre forme di "copertura". Insomma, un bel pasticcio, per un'Italia che vuole "la botte piena e la moglie ubriaca"...