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27 feb 2014

La passione civile di Paolo

di Luciano Caveri

Quando, un mesetto fa, mi sono sposato, scherzavo con alcuni miei cugini - anche se si trattava di umorismo macabro - di come, in fondo, un matrimonio del loro cugino attempato spezzasse la tragica circostanza per cui, a partire da una certa età, ci si incontra prevalentemente per i funerali. I "fiori d'arancio", insomma, sono meglio di una veglia funebre. Come avviene oggi e purtroppo, per il funerale di mio cugino, Paolo Caveri. In effetti, quando il tempo passa, fa impressione riflettere su come, nella propria quotidianità, spariscano, dalla scena della propria vita, parenti e amici, inghiottiti - spesso d'improvviso e con una logica cieca - dalla morte. Ci sono tante persone che mi mancano molto con la loro assenza e mi consola pensare che ho tanti ricordi che li riguardano e, ogni volta, tornano in vita per un istante. Sono "fantasmi" buoni, che ho nel cuore e che, con l'incanto della nostra intelligenza e dei sentimenti, riappaiono per una situazione, un luogo, un'associazione di idee. La memoria è un grande lenitivo per chi non c'è e vorremmo avere ancora qui, adesso, e ritroviamo accanto per quello che sono stati per noi. Così, grazie al potere evocatore che abbiamo, ricorderò Paolo, cui mi dividevano alcuni anni, che creavano quella distanza in epoca giovanile, quando erano soprattutto Pila e la casa della zia Eugénie - collante della famiglia - i luoghi di riunione ed io ero il cuginetto rompiballe. Mentre da adulti - lo vedo nell'affinità con mio fratello Alberto, nato a pochi giorni distanza da Paolo - cinque anni di distanza diventano un battito di ciglia, che ti incasella in sostanza nella stessa generazione e ti fanno invecchiare assieme. Mio cugino era un ottimo avvocato e un uomo intelligente e pacato, dal sorriso rassicurante e dal modi gentili. Ma questo non voleva affatto dire che non avesse convinzioni profonde, una solida passione civile e una lucida capacità di giudizio, spesso esercitata con un umorismo tagliente e caustico, che mi ricordava lo zio Mario, suo papà e le sue battute secche. Era, come molti di questi tempi in Valle d'Aosta, preoccupato per il degrado nell'uso della "cosa pubblica" e la sua analisi era profonda e attenta e per me del tutto assonante, avendo ereditato, specie nell'humus del nostro ambiente familiare, un insieme di valori etici, sconosciuta a molti che di questo patrimonio se ne fanno un baffo. La sua vita, invece, è sempre stata esemplare di una dirittura morale che non è soggetta a mode e, anche per questo, ce lo farà rimpiangere.