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16 ott 2013

Quegli eritrei nella neve

di Luciano Caveri

Immagino lo stupore misto a paura degli undici migranti eritrei, quando si sono trovati in mezzo alla neve in Valle d'Aosta, in direzione Svizzera, dove speravano di entrare come clandestini. Il loro tentativo di fuggire alle Forze dell'ordine, in quell'ambiente ostile e sconosciuto, ha - se ci immedesimiamo - un che di commovente. Chissà da quale parte dell'Eritrea arriveranno, magari dalla pianura costiera o dall'altopiano occidentale o forse la zona collinare del nord ovest o ancora dalla zona vera e propria delle pianure. Comunque sia, la neve - nel loro Paese martoriato da guerre e dittatura - non l'hanno mai vista, ma nella loro vita avranno visto storie di ordinaria violenza, di orrore e povertà. Sul "Fatto Quotidiano" il giornalista Joseph Zarlingo ha così sintetizzato la situazione in Eritrea: «Governata dal 1993, anno di indipendenza dall'Etiopia dopo una pluridecennale guerriglia di liberazione, da Isaias Afwerki, l'Eritrea è uno dei Paesi più chiusi del mondo, anche se sempre di più al centro di una complicata partita geopolitica a causa delle sue risorse minerarie e della sua posizione strategica vicina al "collo di bottiglia" che chiude il Mar Rosso. Secondo l'ultimo rapporto annuale di "Amnesty International", la situazione dei diritti umani nel Paese è drammatica: "L'arruolamento militare nazionale è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. E' rimasto obbligatorio anche l'addestramento militare per i minori. Le reclute sono state impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato ad essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L'impiego di tortura ed altri maltrattamenti è stato un fenomeno diffuso. Non erano tollerati partiti politici d'opposizione, mezzi di informazione indipendenti od organizzazioni della società civile. Soltanto quattro religioni erano autorizzate dallo Stato; tutte le altre erano vietate e i loro seguaci sono stati sottoposti ad arresti e detenzioni. Cittadini eritrei hanno continuato a fuggire in massa dal Paese"». La seconda circostanza è che gli eritrei sono stati trovati e hanno poi cercato la fuga lungo la strada del Gran San Bernardo. Di certo, al di là del fatto che la Svizzera fosse a due passi, ignoravano il valore storico di quel tracciato sul quale si trovavano. Oggi potremmo raccontare loro, se non ci fosse per loro la disperazione del possibile respingimento, della via Francigena verso Roma, Capitale della cristianità, che per secoli ha visto sul Colle, intitolato a San Bernardo inventore degli ospizi alpini, il transito di pellegrini. Ma sappiamo che il passo ha un vissuto ancora più antico e di lì sono passati, avanti e indietro, persone, personalità e eserciti, attraverso i millenni. In vari momenti - ed il caso più recente sono stati dissidenti politici e ebrei perseguitati, durante la Seconda Guerra mondiale - la Svizzera è stata terra di accoglienza. Ora nella Confederazione le regole sono ancora più stringenti che nell'Unione europea. Ma anche in Svizzera, come in Italia e in Europa, cresce il dibattito sul necessario distinguo fra "migranti semplici" e quelli che devono poter godere del sacrosanto diritto d'asilo e dello status ancora diverso che possono ottenere i rifugiati. Diritto internazionale, certo, ma che urta con la realtà di un disordine mondiale e del fenomeno di svuotamento, in risorse umane e intelligenze importanti, di quei Paesi da cui si fugge, cercando una nuova vita nell'Occidente. Ma l'accoglienza meglio statuita e il regolamento dei flussi, non risolvono il problema di abbandonare al loro destino Paesi come l'Eritrea. Perché anche di questo si tratta.