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18 ott 2013

«Tacchi, dadi e datteri»

di Luciano Caveri

Visto che c'è una discussione sulle riforme, che vede in campo in Valle d'Aosta non solo le istituzioni preposte, ma anche stravaganti soggetti promotori, che sono ormai come il prezzemolo su qualunque cosa (in francese, ci sono espressioni simpatiche, come «aller au persil»), con comprensibile scopo di ascesa personale, vorrei qui scrivere un mio pensiero. Chiunque abbia studiato la nostra Costituzione repubblicana o abbia avuto - come mi è successo - la fortuna di lavorarci sopra, nell'attività parlamentare ordinaria e in certe stagioni di cambiamento, sa che si tratta, nella sostanza, di un buona Costituzione. Vi risparmio tutta la retorica sulla capacità di compromesso delle varie anime presenti fra i costituenti, che ne fecero una sintesi. In questa fase storica, in cui si invocano riforme costituzionali di sostanza, in un clima del tutto inadatto, trovo che abbia abbastanza ragione chi si dimostra sospettoso con chi manovra attorno alle riforme prossime venture. Si tratta di vecchi e nuovi apprendisti stregoni, che hanno come scopo uno Stato più autoritario e dunque, giocoforza, più centralista. Spiace notare che da noi sul tema c'è chi abbocca all'amo o semplicemente si è venduto e poi in Valle operano anche personalità d'importazione, ormai multitasking, che si occupano di «tacchi, dadi e datteri» (divertente nonsense di Cochi e Renato). Dice un celebre detto: «Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia, non sa quel che trova». Per convinzione non sono un conservatore, ma ci sono momenti storici di difficile lettura, in cui il mio animo riformista si ferma sulla soglia della vigile ragionevolezza. Vorrei mettere ordine in questa contraddizione. Appartengo a quelli che ritengono che la forma di Stato scelta sessant'anni fa, regionalismo flebile e troppi elementi di continuità con il passato, sia stata un'occasione perduta. Ci voleva il federalismo, probabilmente con formule differenziate, che creassero più velocità autonomistiche a seconda della base di partenza. Questo, nel caso nostro, avrebbe creato le basi giuridiche di uno Statuto d'autonomia più o meno "forte" e, mai come oggi e cioè in un periodo di autonomia speciale declinante nella realtà e nelle affermazioni verbose, si può capire cosa intenda. Un patto federale non è un'autonomia octroyé, concessa. Con meccanismi invasivi dello Stato troppo facili e con una difficoltà enorme di aggiornamento dello Statuto, perché o si ha la capacità e la forza di portare in porto certe riforme nelle difficili acque parlamentari (io l'ho vissuto, con successo, ma prendendo qualche rischio) oppure c'è la prospettiva inquietante di varare un testo in Consiglio Valle con grandi speranze e di trovarsi, infine, dopo il passaggio alle Camere della legge costituzionale, con uno Statuto peggiorato, altro che migliorato!